Introduzione
Anche a seguito di restrizioni drastiche all’attività economica e alla mobilità nel primo anno della pandemia, le emissioni globali si sono ridotte di appena il 7% rispetto all’anno precedente. In Italia, poco di più. Questo ammontare è più o meno quello che dovremmo tagliare ogni anno fino al 2030 per limitare l’aumento delle temperature medie a 1,5 °C.
Tuttavia, il 2021 ha visto in atto il prevedibile effetto rimbalzo, con le emissioni cresciute del 6% e tornate, quindi, sostanzialmente al livello pre-pandemia. Dovevamo uscirne migliori, più attenti e misurati, invece nell’arco di un solo anno è stato impostato un processo di restaurazione poderoso quanto miope, privo di una riflessione sul medio e lungo termine.
Gli stimoli economici varati dai governi - il nostro non fa eccezione - non avranno l’effetto necessario a intraprendere la traiettoria indicata dagli accordi internazionali sul clima, la biodiversità, l’ambiente. Anzi, in questo momento rappresentano più un ritorno al passato, seppure con pennellate di green e innovazione digitale.
Non si può fare a meno di notare una crescente frustrazione tra gli attivisti per il clima: tutto ciò che è ormai riconosciuto come “la cosa giusta da fare” resta politicamente difficile da attuare. Strutture di potere e di pensiero profondamente radicate impediscono la transizione verso la neutralità climatica e restringono le opportunità di cooperazione globale, ostacolando forme sociali alternative e sistemi economici radicalmente diversi. Sono strutture che albergano, più spesso di quanto si pensi, anche nelle stesse organizzazioni e nei movimenti della società civile, il cui spazio di manovra si è compresso durante il secondo anno di restrizioni legate alla pandemia. Lo sbocco digitale ha rappresentato un modo per continuare la conversazione e supportare attività di mobilitazione, tuttavia è innegabile che l’effetto concreto sia stato decisamente inferiore alle attese e, soprattutto, alle necessità.
In questo capitolo ripercorriamo le tappe principali di quella che dovremmo considerare una battuta d’arresto per l’ecologismo italiano e internazionale, le cui istanze sono state letteralmente schiacciate nel processo di ripristino dello status quo che ha caratterizzato il 2021. Un bagno di realismo che, auspichiamo, possa servire per prendere meglio le misure della sfida e tornare sul campo con nuova energia.
Guerra alla biodiversità
L’anno appena trascorso ha visto consolidarsi ulteriormente la falsa dicotomia tra società e natura. Nonostante il tentativo - talvolta anche fruttuoso - di portare nel discorso pubblico l’evidenza delle interconnessioni fra l’umanità e gli ecosistemi in cui si dispiega, ciò che abbiamo visto in pratica è una scarsissima attenzione da parte delle politiche allo stato di salute ecologica dei territori. In un’analisi sulle politiche ambientali nazionali del 2021, il WWF ha calcolato che appena lo 0,5% dell’ammontare complessivo del PNRR (1,19 miliardi su 191,5 miliardi complessivi) è stato dedicato alla biodiversità. Il programma “principe” che avrebbe dovuto rappresentare l’uscita del nostro paese dalla crisi pandemica con uno sguardo rivolto al futuro, fallisce proprio nella definizione delle priorità. La cura degli ecosistemi e della vita selvatica che li abita è considerata un investimento a perdere nel migliore dei casi, da finanziarizzare nel peggiore.
La stessa razionalità si ritrova nella Politica agricola comune e nella bozza del piano strategico che l’Italia ha redatto per dettagliare come spenderà i relativi sussidi europei. Dei 10 miliardi di euro che serviranno per sostenere il settore primario tra il 2023 e il 2027, la maggior parte andrà a sostegno dell’allevamento intensivo, a fronte di poche e marginali richieste di miglioramento dal punto di vista ecologico e sanitario. I vincoli ambientali proposti inizialmente dalla Commissione europea sono stati indeboliti nel corso del negoziato a tre con l’Europarlamento e gli stati membri. L’accordo raggiunto sull’impianto generale il 25 giugno 2021 ha escluso infatti l’allineamento obbligatorio della PAC con gli impegni su clima, ambiente e biodiversità. Il Green Deal europeo, con i suoi obiettivi e le sue strategie (la Farm to Fork e la Biodiversità 2030) è citato nel documento finale, ma non costituisce un riferimento vincolante per i piani nazionali. Un terzo del bilancio europeo - tale è infatti la portata della Politica agricola comune - risulta quindi svincolato dalle urgenze della crisi climatica e della biodiversità. Il tutto a ridosso del rapporto incendiario della Corte dei Conti europea, secondo cui i 100 miliardi destinati al clima nella PAC 2014-2020 non hanno avuto “alcun impatto visibile”.
L’incomunicabilità fra le aspirazioni e le pratiche è evidente anche nei rallentamenti imposti alla legge sull’agricoltura biologica, osteggiata da frange di parlamentari fedeli al modello di agricoltura intensiva della “rivoluzione verde”. Dopo 13 anni di attesa e dopo aver completato la discussione nelle Commissioni Agricoltura di Senato e Camera, la legge rimarrà bloccata alla Camera dei Deputati fino a febbraio 2022, quando verrà mutilata da un emendamento che esclude l’agricoltura biodinamica, obbligando il testo a un nuovo passaggio in Senato, per l’approvazione definitiva il 2 marzo.
Se la promozione di un’agricoltura più sostenibile stenta, i piani di uscita da pratiche inquinanti restano nel cassetto: è ancora, infatti, ignota la sorte del Piano nazionale pesticidi, in ritardo di oltre due anni, che dovrebbe definire obiettivi, misure e tempi per ridurre i rischi e l’impatto di queste sostanze sulla salute umana e sull'ambiente. Nel frattempo, un rapporto preliminare voluto dalla Commissione Europea fornisce un parere positivo per il rinnovo dell’autorizzazione all’uso del glifosato, il pesticida più utilizzato al mondo la cui autorizzazione in Europa è in scadenza nel dicembre 2022.
Un miraggio rimane anche la legge sul consumo del suolo in Italia. Di nuovo il Parlamento perde l’occasione di fermare la cementificazione selvaggia e mettere in sicurezza il territorio. Secondo il nuovo rapporto dell’ISPRA, nell’ultimo anno le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 km quadrati, ovvero, in media, più di 15 ettari al giorno. Un incremento che rimane in linea con quelli rilevati nel recente passato.
Clima di imbarazzo
Anche sulla crisi climatica il ruolo delle politiche nazionali nel 2021 è stato marginale, se non apertamente regressivo. Eppure l’Italia era paese co-organizzatore della Conferenza ONU sul clima, la COP26 che si è svolta a Glasgow fra il 2 e il 13 novembre. Proprio nell’anno in cui uno scatto in avanti avrebbe potuto giovare al nostro paese anche in termini di reputazione, abbiamo assistito invece al tentativo di rifuggire qualunque impegno concreto. La dimostrazione plastica possiamo trovarla nella posizione che il governo ha assunto in occasione del lancio della Beyond Oil&Gas Alliance (BOGA), un patto per interrompere i sussidi a progetti all’estero legati ai combustibili fossili sottoscritto da 25 paesi durante i giorni della COP. A pochi istanti dall'uscita pubblica, l’Italia non figurava tra gli aderenti. Forse il peso di Eni e delle altre aziende fossili ha generato qualche rallentamento. All’ultimo istante, il Ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è riuscito a mettere la firma sull'impegno, aderendo però al “livello base” dell’alleanza, quello che prevede un generico supporto ma nessuna azione concreta.
Più in generale, la COP 26 è stata considerata abbastanza univocamente un grave fallimento: l’ambizione del testo conclusivo è stata smorzata giorno dopo giorno, fino a prefigurare - nella sua versione finale - un impatto politico vicino allo zero.
Energie negative
Così come sul clima, anche sull’energia il 2021 ha portato il dibattito indietro di decenni: abbiamo sentito il Ministro della Transizione Ecologica parlare con il Financial Times di rilancio del nucleare e osservato le bollette schizzare alle stelle, fatto che ha dato linfa alla retorica fuori dal tempo secondo cui l’aumento della produzione interna di combustibili fossili è la via per contrastare il picco dei prezzi del gas sul mercato internazionale.
In linea con questa vulgata, è proseguito il processo di approvazione del Piano nazionale per la transizione energetica delle aree idonee (PiTESAI), approvato a dicembre dalle Regioni e pubblicato dal MiTE l’11 febbraio 2022. Il piano dovrebbe mappare le aree idonee a ospitare progetti di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, sia in mare che a terra. L’idea originaria era limitare il più possibile i territori accessibili a queste operazioni, invece il PiTESAI considera area idonea il 42,5% del territorio nazionale. Oltre a sbloccare l’assegnazione di permessi esplorativi e di sfruttamento, il Piano - dopo tre anni di moratoria - sdogana nuovamente la pratica dell’air gun, una tecnica di ispezione dei fondali marini che prevede “cannonate” di aria compressa per estrarre, dalle onde riflesse, dati sulla composizione del sottosuolo. Tuttavia, è ormai acclarato che questo strumento disorienta e danneggia gli animali marini.
Del resto, il governo si muove in un contesto europeo che a sua volta ha perso occasioni importanti, legittimando queste spinte regressive e restauratrici. L’approvazione a dicembre del primo atto delegato relativo al Regolamento UE sulla tassonomia delle attività sostenibili ha incluso gas e nucleare nell’elenco degli investimenti considerati “verdi” da Bruxelles. La tassonomia doveva servire a dare chiarezza agli investitori e ai governi sulle attività da etichettare come “sostenibili” e quindi da incentivare per raggiungere gli obiettivi del Green Deal europeo. La lotta senza quartiere che si è scatenata sul documento ha visto ancora una volta la politica cedere alle pressioni dell’industria, elencando il gas fossile e l’atomo fra le forme di produzione energetica meritevoli di sostegno per la transizione ecologica. Il risultato è che invece di prevenire il greenwashing, la normativa europea ora lo promuove.
Un popolo inquinato
“L'impianto siderurgico Ilva di Taranto ha compromesso la salute delle persone e violato diritti umani per decenni, scaricando grandi volumi di inquinamento atmosferico tossico. Le persone nelle vicinanze soffrono di elevati livelli di malattie respiratorie, malattie cardiache, cancro, malattie neurologiche debilitanti e mortalità prematura. Pulizia e bonifica che avrebbero dovuto iniziare nel 2012 sono state posticipate al 2023, con il varo da parte del governo di speciali decreti legislativi che permettono all'impianto di continuare operare”. Questo è un estratto dal quadro globale tracciato dal Relatore speciale dell’ONU per l’ambiente, David Boyd, nel suo rapporto presentato recentemente all’Assemblea generale. Secondo Boyd, 9 milioni di persone l’anno muoiono prematuramente a causa dell’inquinamento e delle sostanze tossiche. Il più noto in Italia è proprio l’Ilva, ma sono in tutto 59 i Siti di interesse nazionale (SIN), cioè i più inquinati del paese. Da decenni attendono bonifiche mai davvero attuate: la superficie totale contaminata è di circa 170 mila ettari, cui si aggiungono 77 mila ettari a mare. Le competenze sono del Ministero per la Transizione ecologica (MiTE), che ha creato un sito web apposito e approvato due decreti negli ultimi due anni. Il primo, a fine 2020, stanziava 105 milioni di euro per il progetto di riqualificazione di questi luoghi; il secondo, arrivato a novembre 2021, aggiunge i 500 milioni previsti dal PNRR per dare un’accelerata al risanamento dei cosiddetti “siti orfani”, cioè abbandonati dai responsabili e il cui destino è ora in capo all’amministrazione pubblica. Come dettaglia Openpolis, “si tratta di aree industriali o minerarie dismesse, discariche abusive, ex inceneritori o raffinerie. Zone spesso coperte di rifiuti, inquinate da varie sostanze tossiche, che costituiscono una minaccia per la salute delle persone che vivono in loro prossimità”. La previsione è di risanarne il 70% entro il 2026. Intanto, secondo il più recente rapporto ISPRA, solo il 4% dei procedimenti di bonifica nei SIN potrebbe dirsi concluso, ma manca ancora la certificazione.
L’illusione digitale
L’assenza di politiche pubbliche per una vera transizione ecologica è speculare ad una crescente fiducia nella digitalizzazione e nell’innovazione tecnologica, su cui oggi le istituzioni poggiano gran parte delle loro aspettative (vere o presunte) per la riduzione dell’impatto climatico e ambientale dei sistemi economici che continuano a sostenere. Il risultato sono politiche che consolidano l’esistente, affidandone la modernizzazione alle novità che offre la tecnica. Il PNRR, ad esempio, destina il 27% delle risorse alla transizione digitale. Tra i progetti della Missione 2, intitolata “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, la digitalizzazione investe la logistica, la filiera agroalimentare, la rete di distribuzione di energia elettrica, i parchi nazionali, le reti di distribuzione dell’acqua e la realizzazione di un sistema di monitoraggio da remoto dei rischi sul territorio.
Ma se la digitalizzazione e l’innovazione può rivelarsi utile per svolgere analisi predittive e modellizzare, ad esempio, gli scenari climatici, dall’altra non è facile affermare che possa rappresentare essa stessa la soluzione al riscaldamento globale. Questa convinzione è molto simile a un pensiero magico dalle fattezze digitali. Ne è prova il fatto che nonostante la gran parte delle tecnologie verdi esista già, esse rimangono sottoutilizzate in tutto il pianeta, mentre si spendono grandi sforzi per creare nuove infrastrutture digitali in grado di contabilizzare e tracciare le tonnellate di carbonio che viaggiano per il mercato finanziario senza produrre una reale riduzione delle emissioni globali. Lo stesso vale per la filiera alimentare. Il nuovo traguardo per la sostenibilità è considerato l’agricoltura di precisione, sulla quale il PNRR italiano investe 500 milioni di euro. Questo concetto identifica processi di efficientamento produttivo che possano concretizzare il mito dell’intensificazione sostenibile, cioè l’aumento della produzione attraverso un uso ottimale degli input che ne minimizzi le ricadute ecologiche. Si tratta sovente di processi basati su costosi macchinari agricoli e sulla raccolta di big data, accessibili prevalentemente ad aziende di grandi dimensioni che possono permettersi l’investimento. Processi che, fra l’altro, non di rado sovrastimano i benefici nel risparmio di acqua, fertilizzanti o pesticidi. Ben distante da un cambio di modello produttivo, dunque, la spinta verso una meccanizzazione più digitalizzata della produzione alimentare rischia piuttosto di consolidare quello attuale, integrando ancora più saldamente l’agricoltore in una filiera governata da pochi grandi soggetti che mirano a fornire un pacchetto di sementi, fertilizzanti e pesticidi che si combini con le tecnologie per il monitoraggio e l’ottimizzazione del loro utilizzo. Questo matrimonio fra agribusiness e piattaforme digitali dovrebbe garantire maggiore efficienza e riduzione degli sprechi. In cambio, l’agricoltore che usa le tecnologie fornisce informazioni chiave sul suo agroecosistema, che le piattaforme digitali possono rielaborare o vendere a terzi, i quali, anche in maniera piuttosto invasiva, possono utilizzarli per i loro scopi.
In definitiva, anche se la digitalizzazione potrebbe essere utilizzata e promossa per ridurre il quantitativo assoluto di risorse consumate, si scontra nel processo con l’ambiente politico-economico in cui viene pensata e messa in pratica. E lo fa al punto, talvolta, di peggiorare il quadro ecologico. Per esempio, la maggior parte delle tecnologie legate all’internet delle cose (IoT) come smartphone, sensori e attuatori, dispositivi di monitoraggio e gestione, ha vita breve e un’obsolescenza programmata, non è fatta per essere riparata ma sostituita, e il suo sviluppo porta in definitiva a un aumento dei rifiuti. Nella sua missione di smaterializzare processi ambientalmente impattanti, rischia di provocare nuove voragini ecologiche.
L’unico modo di mettere la digitalizzazione al servizio della transizione ecologica sembra quindi sottrarla alle logiche che permeano il sistema economico basato sulla crescita infinita, passando da un concetto di sostenibilità intesa come modernizzazione (dove sostenibile è considerato solo ciò che è anche redditizio per chi ha maggior potere di mercato) a una sostenibilità intesa come trasformazione, in cui la tecnologia e l’innovazione vengono pensate e prodotte in funzione dell’interesse pubblico, per garantire una maggiore uguaglianza delle opportunità e supportare il soddisfacimento di bisogni primari.
Conclusioni
Può apparire semplicistico costruire un’analisi tanto severa delle politiche ambientali condotte nell’anno passato. Tuttavia pare necessario calcare la mano se coltiviamo la convinzione che esistano vie radicalmente altre per modellare le economie e direzionare lo sviluppo. Politiche irrimediabilmente deboli e poco incisive, a partire dal nostro PNRR per arrivare alle decisioni che la comunità internazionale prende sulla scorta delle indicazioni degli esperti dell’IPCC, nascono da scenari costruiti da un’indagine scientifica che fa ancora troppo affidamento sulla necessità di cambiamenti sul versante della domanda, cioè sul potere del consumatore di cambiare il contesto attraverso le sue scelte personali. Tuttavia è ormai evidente che le azioni individuali sono inserite in quadri istituzionali, sociali e infrastrutturali che rendono i comportamenti dannosi la norma. Nella maggior parte dei contesti sociali, agire in modo meno dispendioso in termini di risorse significa rompere routine consolidate, il che spesso richiede sforzi e spese aggiuntive, che la grande maggioranza delle persone non può permettersi. Uno stile di vita a zero emissioni è attualmente possibile solo se prendiamo decisioni che sarebbero percepite dagli altri come estreme. La critica racchiusa in queste righe vuol essere quindi un contributo al tentativo di allargare il consenso intorno all’idea che la normalizzazione di un comportamento rispettoso del clima non avverrà attraverso la somma di decisioni individuali. Piuttosto, saranno necessari “aggiustamenti strutturali delle condizioni quadro che pre-strutturano i nostri spazi di azione”, che sono principalmente in capo alle istituzioni. Allo stesso modo, occorre mettere in discussione la cultura di ottimismo tecnologico che ha sostenuto lo sviluppo della politica negli ultimi 30 anni, creando un discorso scientifico che tende a convalidare gli attuali approcci di politica climatica e ambientale, marginalizzando una serie di proposte alternative che guardano alla giustizia sociale e alla riduzione delle diseguaglianze. Fortunatamente, i movimenti giovanili per la giustizia climatica hanno compreso, negli anni della pandemia, la necessità di cambiare narrativa, così che va emergendo nel loro discorso pubblico un’argomentazione più elaborata dell’iniziale “listen to the science”. Questa maturazione sta portando a convergenze più decise con le organizzazioni e i movimenti che portano avanti un pensiero decoloniale e di ecologia radicale, specialmente nel Sud del mondo. Dall’intersezione delle due correnti di mobilitazione può emergere una nuova stagione di proposta, anche nel nostro paese, capace di tenere insieme, finalmente, transizione ecologica, diritti civili e sociali.
Tina Merlin
Il 9 ottobre 1963 è una data che gli abitanti della valle del Vajont non dimenticheranno mai. Precisamente alle 22:39 di quella sera una colossale frana - stimata in circa 260 milioni di metri cubi di roccia - si stacca dal Monte Toc e si rovescia nel bacino idrico sottostante: la diga del Vajont, che conta 115 milioni di metri cubi d’acqua. Si alza un’onda alta secondo alcune stime dai 150 ai 200 metri di altezza, che, dividendosi in due parti, investe i paesi di Longarone, Erto e Casso. I I danni sono inestimabili. I morti sono calcolati in 1900 persone, tra i quali 487 bambini.
Il “disastro del Vajont”, più che prevedibile, era praticamente certo. Da anni gli abitanti del luogo denunciavano la pericolosità dell’opera, da anni Tina Merlin cercava inutilmente di dare loro voce sul panorama nazionale.
Classe 1926, Tina aveva deciso di seguire le orme del fratello Antonio, comandante partigiano ucciso in combattimento, e aderire alla Resistenza. Staffetta durante il conflitto, dopo la guerra era diventata giornalista e scrittrice. Iniziò in questo ruolo una profonda e duratura collaborazione con l’Unità, di cui fu per tre decenni corrispondente da diverse zone del nord-est. Fu proprio ricoprendo tale ruolo che Tina Merlin conobbe la vicenda della diga del Vajont, sulla quale più volte prese posizione, denunciando la bomba a orologeria che si sarebbe innescata mettendo in funzione l’invaso. Non solo i suoi avvertimenti caddero nel vuoto, ma nel 1959 venne denunciata dal conte Vittorio Cini, ultimo presidente della SADE, l’azienda elettrica privata che controllava la diga. Accusata di "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico", la giornalista fu processata e poi assolta nel 1960.
In seguito al disastro Tina realizzò un saggio dal titolo “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont”, nel quale ripercorreva la lunga serie di eventi che portarono a quel maledetto 9 ottobre. Nel libro si denunciano apertamente le pratiche adottate dalla SADE per imporre alla valle e ai suoi cittadini l’impianto, la complicità delle istituzioni, le falsificazioni dei dati idrogeologici, i tentativi di insabbiamento e di mistificazione dei fatti ai danni dell’opinione pubblica. Anche per questo, incredibilmente, nonostante la portata della tragedia, per vent’anni non ci furono editori disposti a pubblicare il saggio, che andrà in stampa solo nel 1983.
Intanto nel novembre 1967 per il disastro saranno rinviate a giudizio undici persone: membri del Ministero dei Lavori Pubblici, dirigenti della SADE e dell’ENEL. Alla fine ci saranno solo due piccole condanne. Molti anni dopo la tragedia, in sede civile, ENEL, Montedison (che aveva assorbito la SADE) e lo Stato saranno condannati al pagamento dei danni ai comuni vittime del disastro.
Quest’ultima fase giudiziaria Tina Merlin non poté seguirla; era morta, a 65 anni, nel 1991.