Introduzione, vivere in un tempo di guerra
Mentre scriviamo, l’attualità ci restituisce le migliaia di bambini, donne e uomini morti dopo l’ennesimo bombardamento, i milioni di profughi, le città distrutte, i crimini, le atrocità e le violenze quotidiane di una nuova guerra nel cuore dell’Europa, quella che, almeno al momento, si combatte in Ucraina, e le cui ripercussioni, nel medio e lungo periodo, adombrano presagi sempre più funesti. Una guerra che segue, senza soluzione di continuità, una crisi pandemica, quella determinata dal Covid, ancora in atto su scala planetaria che, secondo ultimi studi(1), avrebbe determinato oltre 18 milioni di morti, incidendo in profondità sulla nostra stessa condizione di esseri umani, sulle nostre possibilità e modalità di esperire tempo, spazio e relazioni. E ancora, questa guerra si aggiunge a tutti gli altri conflitti in corso nei diversi continenti del pianeta(2), con il loro appetito mai sazio di sangue e disperazione, di milioni di altre genti in fuga che raggiungono l’Occidente chiedendo asilo e accoglienza e che, sempre più spesso invece, ricevono dinieghi e respingimenti, allontanati a una distanza d’offesa che mortifica il diritto internazionale e il senso stesso di umanità.
Questo tempo sembra opprimere e annichilire finanche la speranza, quale memoria del futuro che permette di costruire un ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà senza arrendersi alla banalità del “non può essere altrimenti”.
Ci troviamo, così, al cospetto di un duplice, mortale rischio: da un lato, a fronte di una sorta di eterno ritorno dell’identico bellico, pur nelle sue diverse sfaccettature, il considerare questo stato di guerra che viviamo, tutti questi eventi, come ineluttabili, quale condizione e destino che apparterrebbero innatisticamente all’essere umano in quanto tale; dall’altro lato, a fronte della portata storica di questi accadimenti, si può perdere il legame che, non solo in senso derivato ma anche derivativo, li unisce alle esperienze e alle condizioni soggettive di esclusione e sofferenza, come se le diverse forme di deprivazione e dolore fossero esclusivamente conseguenza di questi eventi funesti e non anche il germoglio dal quale è potuta nascere la loro stessa possibilità. È evidente, e pure i discorsi pubblici continuamente lo mostrano, come guerre e pandemie, portando lutti, distruzione, perdita e morte, siano germinativi di nuove, profonde afflizioni. A fronte di tanto devastante fragore, delle bombe, dei missili, delle sirene antiaeree e di quelle dei mezzi di soccorso, delle immagini che attraverso tutti i media li raccontano, restano invece ancor più nascoste, silenziate, taciute, quelle condizioni di esclusione e sofferenza in cui soprattutto i più deboli, i più fragili, vivono una quotidianità che mai è definita “epocale”. Tuttavia, è proprio nelle fratture di dolore di queste esistenze, nella loro dicotomia tra chi ha e chi non ha, tra vincitori e vinti, inclusi ed esclusi, sani e patologici, che si “prepara” lo stato di guerra, al di là di ogni presunto innatismo, come parte dei più complessi dispositivi di governo dei viventi.
Esclusione, sofferenza, guerra, seguendo la lezione di Sergio Piro
Per provare a resistere allo smarrimento, evitando il rischio di semplificazione cui si è appena accennato, si è trovata la guida di uno scritto di vent’anni fa di Sergio Piro, Esclusione sofferenza guerra(3), che sarà la guida delle riflessioni di questo capitolo (e per questo sarà citato in modo esteso). È uno scritto breve, eppure molto denso, realizzato per tesi, durante la guerra in Afghanistan e prima dell’invasione dell’Iraq, che mostra, ancora oggi, una sua dirimente attualità e forza.
Ci aiuta, innanzitutto, fin dalla prima tesi, a ricomporre il quadro di analisi: «Le prassi di aggregazione antropica, pienamente rispettose dei diritti di tutte le componenti sociali, dei sottogruppi e dei singoli, e le prassi di esclusione sociale, contrassegnate da un’attiva e violenta negazione dei diritti di componenti sociali, di sottogruppi, di singoli, sono aspetti parziali – cioè di parte, di una parte, di un groviglio parziale – dell’accadere antropico complessivo. Queste prassi sono compresenti e continuamente modulate da spinte generali di carattere economico e culturale. La pace e la guerra sono gli aspetti più evidenti ed estremi di questa attitudine antitetica fondamentale delle società umane antropologicamente e storicamente note»(4). Esiste un continuum, uno stretto legame tra stato di guerra ed esclusione sociale: «La guerra, lo sfruttamento dei popoli militarmente deboli, le diseguaglianze economiche, la rapina delle risorse, la negazione del diritto di sopravvivenza, la negazione della cultura e del progresso, il dominio dei ricchi sui poveri e dei forti sui deboli, la distruzione della natura, tutto ciò si collega senza soluzione di continuità con le condizioni di esclusione sociale circoscritta e di violenza diffusa, presenti con evidenza massima e crescente all’interno degli stati imperiali dominanti e delle società del benessere»(5). In tale prospettiva, le diverse forme di esclusione si presentano come stato di guerra attiva contro le fasce e le categorie di popolazione che ne sono vittima: «Le forme di esclusione sociale a fascia (versus le donne, le persone di diversa condizione sociale, le persone di diversa cultura o lingua o aspetto esterno, gli omosessuali, i transessuali, i disoccupati, etc.) o circoscritta (versus i disabili, i malati mentali, i tossicodipendenti, i vagabondi, etc.) si costituiscono come negazione di diritti delle persone perseguitate e come stato di attiva guerra contro di esse. Queste considerazioni sulla indeclinabile continuità fra gli accadimenti antropici generali e quelli più ristretti, cioè microsociali, nulla tolgono alla considerazione della specificità medica e/o psico-antropologica di alcuni tipi di sofferenza e/o di inabilità, né all’importanza di un agire specifico in tali condizioni o componenti»(6).
La guerra, dunque, «si rivela in ogni forma di odio, di aggressività, di oppressione, di persecuzione, di sadismo macro-sociale, micro-sociale, singolare»(7), e considerarla un destino dell’uomo è parte di un ordine del discorso volto al suo perpetuarsi: «Le teorie innatistiche sugli istinti di morte e sulla loro ineliminabilità sono al servizio della guerra e dell’esclusione. L’evoluzione linguistica, concettuale, affettiva, sociale e politica della specie umana ha costantemente dimostrato la modulabilità estrema dei comportamenti iniziali, detti istinti, della loro facile trasformazione e inversione»(8).
Rappresentano, quindi, chiare manifestazioni di guerra «tutte le forme di negazione dei diritti degli altri, di violenza personale, di gelosia, di stupro, di assoggettamento ideologico, comportamentale, religioso e culturale, di oppressione delle donne e degli uomini, che versano in condizioni presunte o reali di difficoltà. Tutte queste modalità costituiscono o modulano o sovradeterminano la sofferenza oscura»(9). Nelle fratture di dolore delle esistenze quotidiane, nelle loro dicotomie cui abbiamo precedentemente accennato, nella sofferenza oscura che si realizza nel suo determinarsi come condizione sociale intessuta di relazioni, si addensano esclusione sociale e guerra: «Quella sofferenza oscura, che viene comunemente detta malattia mentale, depressione, nevrosi, disadattamento, condizione psicopatologica, etc., è impregnata di esclusione sociale e di guerra (violenza intersingolare e plurale), talora già nel suo determinarsi, sovente nel suo radicarsi e complicarsi, sempre nella sua immersione sociale e nelle relazioni che vi attengono»(10). Queste caratterizzazioni risultano essenziali sia che la sofferenza nasca prioritariamente da una malattia biologica, sia che invece venga determinata da una problematica interiore: «Qualunque modo della cura che non tenga conto di questa realtà è destinato a rivelarsi come un’ulteriore atto di guerra contro la singolarità sofferente, una maggiore e più grave esclusione […] Nelle donne e negli uomini, in cui una malattia biologica sia da riconoscersi come movente primo della sofferenza, non cessa mai la determinante influenza dell’immersione nel sociale fluente sul destino singolare: l’esclusione e la guerra gettano il singolo al livello più basso e più avvilito delle sue potenzialità […] Del pari, nelle donne e negli uomini in cui una problematica interiore sia da riconoscersi come movente primo della sofferenza, non cessa mai la determinante influenza dell’immersione nel sociale fluente sul destino singolare: l’esclusione e la guerra impediscono al singolo il mutamento della sofferenza in progetto di vita, in potenza d’espressione, in capacità di modificare o rendere agibili le condizioni microsociali circostanti»(11).
Secondo Sergio Piro, nella lotta anti-istituzionale che in Italia portò al superamento del manicomio erano noti e praticati i principi per cui nessuna cura della sofferenza oscura è possibile senza antagonizzazione della esclusione e della guerra, e, conseguentemente, non può definirsi cura qualsivoglia tecnica che, in qualunque modo, aumenti l’esclusione e stimoli la guerra, o anche resti neutrale abbandonando di fatto il singolo. Conseguentemente, «l’impegno attivo contro l’esclusione e la violenza include necessariamente anche tutti gli interventi psicologici, medici, progettuali (riabilitativi nelle terminologie d’uso), ambientali, pedagogici, etc. che il lavoro collettivo, la ricerca autentica, l’esperienza, la sperimentazione dei servizi abbiano dimostrati utili nella cura della sofferenza e nel mutamento del destino singolare […] Non si può in alcun modo ravvisare in coloro che si occupano della sofferenza oscura una capacità di liberazione dall’esclusione e di antagonizzazione della violenza che non derivi dalla generale coscienza della condizione umana in questa parte della storia, dalla pratica, dall’esperienza, dalla libera ricerca»(12). Negli anni, tuttavia, secondo Piro, la consapevolezza e la pratica di questi principi sono venuti meno, in un processo di svuotamento dell’intervento teorico e pratico per la cura della sofferenza oscura che ha accompagnato il trionfo del liberismo e dei partiti di destra, la dissoluzione delle sinistre istituzionali, la caduta clientelare e corporativa di organizzazioni dapprima propulsive (Piro richiama esplicitamente l’esempio d Psichiatria democratica), il depauperamento dello Stato sociale, l’accentuarsi della corruzione politica e delle forme di collusione con la criminalità organizzata, “l’ibernazione” dei movimenti politici alternativi. Si è avuto così, sostiene lo psichiatra napoletano: «[…] l’evidente restaurazione delle pratiche manicomiali, in tutta la loro massima potenzialità bellica, nei servizi territoriali e ospedalieri nati con la riforma e divenuti in buona parte del territorio nazionale luoghi di detenzione, di alienazione terapeutica, di distruzione farmacologica di ogni progettualità e di ogni senso, di abbandono dei sofferenti o di loro cessione all’imprenditoria privata, di negazione di ogni prevenzione e di ogni vero rilancio alla vita (riabilitazione), etc»(13).
Questa restaurazione dei dispositivi manicomiali, innanzitutto quello dell’internamento, con “tutta la loro massima potenzialità bellica”, si realizza nelle storie, si rende esplicito nelle prassi, si attualizza nei luoghi che di seguito andiamo a ripercorrere.
Storie di guerra quotidiana: Wissem morto legato in ospedale
Ancora con grande lucidità ed efficacia, pure anticipando alcune traiettorie storiche che diventeranno evidenti soprattutto in questi ultimi venti anni, le riflessioni di Sergio Piro ci portano a ragionare sulla condizione dei migranti: «Ogni donna e ogni uomo hanno il diritto di porre la loro residenza su questo pianeta dovunque essi vogliano. Pertanto ogni legge sull’emigrazione–immigrazione, anche la più tollerante, è di per se stessa immorale (dove «immorale» è tutto ciò che lede i fondamentali diritti umani) […] Le leggi sull’immigrazione sono generalmente poste da quei paesi che vivono nell’opulenza a loro derivata dalla rapina coloniale dell’Evo moderno e dai cospicui e accresciuti vantaggi della fase post-coloniale […] La forma mentis propagandata nei paesi ricchi si basa sul nazionalismo o sul regionalismo e sulla presentazione dei vantaggi della rapina coloniale e di uno sviluppo industriale selettivo e localizzato come frutto della particolare laboriosità e superiorità civile dei cittadini dell’etnia locale (invece che sulla facilità di disporre di risorse), con un ulteriore incremento secondario degli atteggiamenti razzisti, delle persecuzioni degli immigrati, delle organizzazioni xenofobe. Entità etniche nuove ed inedite sono inventate a tale scopo e lanciate a stimolo delle peggiori ideologie regressive di massa (così come avviene nel nord dell’Italia e non solo lì)»(14). Contro gli immigrati si sviluppa, così, un perpetuo stato di guerra: «La condizione degli immigrati è dunque immersa nella discriminazione, nell’esclusione, nella persecuzione razziale, nello sfruttamento selvaggio del lavoro “nero”, nell’obbligo alla prostituzione e alla criminalità, nella condanna alla sporcizia, alla periferia, al degrado, nel sorriso e nei doni di Natale dei ricchi pietosi (conservative compassionate), nel sostegno dei partiti politici “progressisti” e autori perciò di leggi discriminatorie “migliori”[…] Le collettività occidentali ricche sono dunque impegnate nella guerra contro gli immigrati e quelle descritte nel punto precedente sono le fenomenologie più frequenti ed evidenti della guerra»(15).
La storia di Wissem Ben Abdel Latif, dal suo arrivo in Italia fino alla morte in un Spdc, manifesta in tutta la sua tragicità, l’evidenza di quanto abbiamo fino ad ora descritto. Riprendiamo l’evoluzione di quanto è accaduto a questo giovane tunisino dal documento realizzato dal “Comitato Verità e Giustizia per Wissem”(16), promosso dalla sua famiglia, dall’associazione LasciateCIEntrare, dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia e dall’Associazione Sergio Piro, a cui, insieme a tante altre associazioni e singoli, anche “A Buon Diritto” ha aderito.
Wissem Ben Abdel Latif è morto il 28 novembre 2021, a 26 anni, in un reparto psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) di un Ospedale pubblico italiano, il San Camillo, a Roma, legato per giorni braccia e gambe a un letto di contenzione. Wissem era già stato legato, il 23 novembre, in un altro Ospedale, il Grassi di Ostia, e dal quale il 25 novembre viene trasferito “per competenza territoriale”. Questo il breve riepilogo della sua storia, consumatasi in meno di due mesi dal suo arrivo in Italia.
Il 2 ottobre 2021 Wissem sbarca a Lampedusa. Al momento dello sbarco risulta orientato nello spazio e nel tempo, non viene accertato alcun disturbo, nemmeno sulla nave quarantena dove viene condotto il giorno successivo per le disposizioni anti-Covid.
Il 13 ottobre 2021 è trasferito al Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria senza aver mai potuto fare richiesta di protezione internazionale. All’ingresso nel Cpr risulta ancora orientato nello spazio e nel tempo. Alcuni video girati con un cellulare di uno dei suoi compagni documentano le condizioni di detenzione in cui è costretto con tanti altri migranti, alcuni testimoni raccontano di violenze perpetrate ai suoi danni.
Il 23 novembre 2021 dopo appena due visite effettuate dallo psichiatra del Centro di salute mentale (Csm), su richiesta della psicologa del Cpr, dopo 40 giorni di detenzione, Wissem, con una diagnosi che appare affrettata e non verrà più rivalutata, è inviato al Pronto Soccorso di Ostia e da qui, il 25, trasferito, senza opporre resistenza a Roma, dove resta durante tutto il ricovero legato a un letto sovrannumerario in corridoio. Non c’è traccia di un colloquio psichiatrico approfondito che inquadri lo stato psichico di Wissem, e viene confermata la diagnosi di ingresso al pronto soccorso. D’altro canto, durante il ricovero, non formalizzato in Tso, Wissem non incontra alcun mediatore culturale, nessuno che consenta di superare almeno la barriera linguistica.
Il 24 novembre 2021 l’esecutività dei provvedimenti di respingimento e di trattenimento presso il Cpr di Ponte Galeria viene sospesa dal Giudice di Pace di Siracusa. Wissem dovrebbe essere rimesso in libertà, ma nessuno gliene dà notizia, mentre è ancora sedato e contenuto in Ospedale. La contenzione fisica è accompagnata da una terapia psicofarmacologica estremamente pesante, determinando l’assurdo logico per cui il paziente viene sottoposto a contenzione in quanto sedato. Wissem resta contenuto e sedato fino alla morte, e nonostante alcuni esami clinici gravemente alterati potrebbero indicare un pericoloso danno muscolare o cardiaco, durante il ricovero a Roma non viene nemmeno sottoposto a un banale elettrocardiogramma.
All’alba del 28 novembre 2021, Wissem muore per arresto cardio circolatorio, legato a un letto nel corridoio di un reparto psichiatrico, una prassi che discende direttamente dall’armamentario manicomiale, dopo aver attraversato il Mediterraneo su un barcone, senza mai aver vissuto in Italia un solo momento di libertà, senza aver potuto esercitare i diritti di richiedente asilo e subendo una detenzione amministrativa che sarebbe dovuta cessare prima della sua morte. L’esame autoptico viene eseguito senza informare i familiari, che sapranno della morte di Wissem solo giorni dopo l’accaduto.
Secondo il Comitato, «La morte di Wissem poteva e doveva essere evitata. Dalla cartella clinica di Wissem, estremamente scarna, sembrano emergere incongruità e mancanze. Chiediamo se non si sia determinata, in assenza di adeguati esami diagnostici, la tragica sottovalutazione delle sue complessive condizioni di salute, anche rispetto alle terapie somministrate. Ancora, chiediamo perché non sia stata rivalutata la diagnosi psichiatrica di ingresso, perché non siano stati realizzati colloqui psichiatrici alla presenza di un mediatore, perché non c’è traccia nemmeno della formalizzazione giuridica del ricovero attraverso il trattamento sanitario obbligatorio»(17). Ricordando le altre tragiche morti per contenzione (di cui, da Antonia Bernardini a Franco Mastrogiovanni ed Elena Casetto, pure nelle precedenti annualità di questo rapporto si è raccontato), e riprendendo la sentenza della Cassazione sul caso Mastrogiovanni(18), il Comitato afferma che «legare una persona non può mai essere considerato un atto terapeutico». Sulla scorta di quanto abbiamo già scritto, aggiungiamo solo che legare una persona è sempre e comunque un atto di guerra, dichiarato e attuato contro chi è contenuto e contro i diritti fondamentali alla cura, alla libertà e alla dignità personali.
Scenari di guerra quotidiana: quando in psichiatria tornano le sbarre
Come abbiamo visto, la morte di Wissem si consuma tra le mura di due reparti psichiatrici ospedalieri. Il Diagnosi e cura del San Camillo, in cui muore, è così descritto dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale dopo una visita ispettiva del 30 dicembre 2021: «I locali di questo Spdc sono, nel complesso, non adeguati alle esigenze dei pazienti. II dehors è uno spazio di cemento, privo di copertura dagli agenti atmosferici, trovato sporco nel giorno della visita, con arredi (qualche sedia) visibilmente rimediati e non pensati per i pazienti. Nessun paziente era in tale area e quelli con cui il Garante nazionale ha parlato hanno confermato di non utilizzarlo per una qualsivoglia attività. II muro che lo delimita è oltretutto facilmente scavalcabile. È apparso evidente che tale spazio fosse utilizzato solo per fumare, dato lo strato di cicche trovato sul suo lastricato. D'altra parte, il locale interno per il fumo consiste in una piccola stanza priva di un sistema funzionante di ricambio dell’aria, con la persiana della finestra chiusa con un lucchetto. Le scritte che ricoprono interamente le pareti riportano date risalenti a diversi anni fa, segno che da tempo tale locale non viene ridipinto o ripulito. Le sale comuni sono estremamente ridotte in numero e in dimensione, arredate con tavolini di colore celeste chiaro, più adatto a un asilo infantile che non a un locale per adulti, emblematico di una proposta 'trattamentale' di tipo infantilizzante. La sala, del resto, viene utilizzata solo per vedere la televisione, mangiare insieme (anche se i posti a sedere sono inferiori al numero dei posti letto disponibili), fare qualche minima attività. L'aggettivo minima è utilizzato volutamente perché è stato riferito al Garante nazionale che, nonostante l'organico preveda assistenti sociali e terapisti per la riabilitazione, di fatto queste figure sono del tutto assenti, con inevitabili ricadute sulla gestione dei pazienti e sul loro percorso terapeutico. II Garante nazionale ha osservato con stupore che le persone erano costrette a stare sempre con la luce artificiale accesa, nonostante tutte le stanze e i corridoi fossero dotati di ampie finestre. A tale stupore è stato risposto che le persiane sono tenute quasi tutte chiuse perché i perni che consentono di tenerle aperte sono rotti da tempo. II risultato, in un ambiente ospedaliero istituzionalmente dedicato alla “cura” (citata nel nome stesso del Servizio) e altrettanto istituzionalmente concepito per evitare segregazione e volto a ricostruire un percorso di riconnessione con l’ordinarietà della vita e della propria gestione, si vive con le finestre oscurate e con la luce artificiale perennemente accesa, così sopperendo alla mancata manutenzione»(19).
In luoghi di questo tipo, troppo spesso la cura è prostituita nel contenimento farmacologico e fisico di una persona sofferente, cui viene negata anche la più elementare possibilità dialogica e relazionale. Questo accade perché, come già approfondito nel passato rapporto, al manicomio sopravvive il dispositivo dell’internamento, spesso in modalità prêt-à-porter che, anche in assenza di una validazione normativa, si reitera in tutti quei luoghi in cui si realizzano forme di riduzione della libertà in nome della cura o della sicurezza. Così, tradendo i principi costitutivi della riforma del 1978, tanto nei reparti ospedalieri e nelle residenze variamente denominate, quanto nei servizi territoriali, si riproducono teorie e prassi del mondo asilare in nuovi spazi d’internamento. Riprendiamo ancora Sergio Piro: « […] i repartini ospedalieri, nei quali la crisi doveva essere compresa nel suo senso umano e nella sua potenzialità trasformazionale (oltre che intelligentemente medicata), si sono sovente trasformati in reparti di ammissione manicomiale con camicie di forza, grave ottundimento farmacologico, degenze illegalmente lunghe; le residenze per persone che non potevano vivere in famiglia sono diventate reparti manicomiali, chiusi a chiave a doppia mandata; i servizi territoriali che dovevano conoscere appieno il loro territorio, accettare, intervenire senza risparmio di tempo e di impegno sono sovente divenuti squallidi ambulatori, capaci solo di erogare farmaci»(20).
A restituire plasticamente questa riduzione manicomiale dei luoghi nati dallo smantellamento degli Ospedali psichiatrici è intervenuta, alla fine di marzo 2022, la notizia, salita agli onori della cronaca nazionale dopo un articolo del Secolo XIX(21), delle sbarre e di una doppia grata di ferro a separare, nell’ospedale Sant’Andrea di La Spezia, i pazienti psichiatrici ricoverati dai visitatori: «Da una parte una sedia, vecchia, con lo schienale in legno, lasciata lì per familiari e amici, ma che sembra quasi dimenticata. Dall’altra, i pazienti, in un cortile di pochi metri quadrati che da tempo si è trasformato in una sorta di sala per i colloqui. In mezzo una doppia grata di ferro, alta fino al primo piano dell’edificio, chiusa con dei lucchetti, che ricorda tanto quella di un carcere, così stretta da rendere difficile vedere bene il volto di chi si trova dall’altra parte»(22). La giustificazione? «La presenza delle grate - spiega Rosanna Ceglie, la primaria di Psichiatria dell'ospedale Sant' Andrea di La Spezia - serve a separare lo spazio esterno proprio dell'ospedale da quello della sezione uomini del reparto psichiatrico. Inizialmente una sola grata delimitava il reparto dall'esterno, poi ne è stata montata una seconda a distanza di circa due metri per evitare il passaggio di alcunché di vietato dall'esterno e che rispetta anche la distanza di sicurezza per il Covid. Sicuramente avremmo voluto offrire ai nostri pazienti delle strutture esterne che potessero essere esteticamente meno evocative di una chiusura così netta. Ovviamente lo spazio fra le due grate non è stato mai utilizzato in alcun modo e la sedia che è stata posta al di là del reparto rappresenta soltanto un gesto di cortesia nei confronti di quel parente che non potendo entrare ma volendo comunque aspettare il proprio caro, anche solo per vederlo da lontano, avesse desiderato sedersi »(23). Il sottosegretario alla Salute ha annunciato un'indagine ministeriale e sul caso è stata depositata una interrogazione parlamentare alla camera dei Deputati. Commentando la notizia attraverso i social network, Mariagrazia Giannichedda, presidente della Fondazione Franca e Franco Basaglia, ha scritto: «Zombies a La Spezia. Sono emersi direttamente dal primo Novecento gli psichiatri del Servizio di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Andrea di La Spezia: seguendo i dettami della legge manicomiale del 1904, custodia innanzitutto e sempre, naturalmente per il bene dei pazienti, i quali si ritrovano imprigionati senza delitto, né giudizio, né colpa. Non è la banale e frequente porta (a volte o sempre) chiusa quella di La Spezia, qui hanno riscoperto le sbarre, diventate alte fino al soffitto per via, dicono, di qualcuno che un giorno le ha scavalcate per scappare. Fra un certo numero di anni, dichiara il presidente della Regione, ci sarà un ospedale nuovo… con sbarre nuove, probabilmente, se non ci saranno psichiatri con teste nuove, umani, vivi, che abbiano imparato cosa può esserci al posto delle sbarre»(24). A noi resta da aggiungere solo che quelle sbarre, come tutti i letti di contenzione, le fascette, le grate alle finestre, le tecniche di contenzione ambientale e farmacologica, tutte le prassi e gli strumenti di internamento, trasformano questi spazi in scenari di guerra.
Prassi di guerra quotidiana: la psicofarmacologia totalitaria
Come pure si è già accennato nelle precedenti annualità di questo rapporto, oggi l’universo psichiatrico, sulla scorta delle classificazioni diagnostiche imperanti, produce processi di medicalizzazione e patologizzazione di sfere sempre più ampie del vissuto quotidiano. Processi spesso incapaci di una lettura efficace e autentica dei percorsi di sofferenza, strettamente associati all’esponenziale aumento di prescrizioni e consumo di psicofarmaci. D’altro canto, tanto nei reparti ospedalieri quanto nei servizi territoriali, l’intervento psichiatrico pare teso più a “silenziare” farmacologicamente i sintomi che a farsi realmente carico della sofferenza, addivenendo a utilizzare una camisolle chimique che in alcuni casi sostituisce il gilet de force, in altri, come quello di Wissem, ne rafforza i legacci. Anche Piro, nelle tesi che qui stiamo utilizzando, torna più volte su questi temi, arrivando a denunciare come «La globalizzazione capitalistica della psichiatria si costituisce e si esprime con inesorabile evidenza in alcuni strumenti caratteristici del suo apparato bellico e in particolare: a. nella manualistica diagnostico-statistica delle malattie mentali; b. nella psicofarmacologia totalitaria»(25). Il discorso, è importante chiarirlo, non è teso a sostenere l’inutilità dell’utilizzo dei farmaci: «Queste considerazioni generali sulle politiche industriali globalizzate nulla sottraggono all’importanza, al valore, all’utilità talora risolutiva di un intervento farmacologico pienamente inserito nella comprensione del senso della sofferenza, delle relazioni umane e sociali che – nella storia e nel presente del singolo – vi ineriscono, della consapevolezza dell’esclusione concomitante», tuttavia, «[…] queste modalità complessive di dazione di senso sono sempre più oscurate e marginalizzate dai tanks e dalle blue bombs della psichiatria psicofarmacodipendente e dei progressisti capovolti»(26). Così, nella mancata volontà e incapacità a restituire accoglienza, ascolto, dialogo alla sofferenza, sì da rifiutarne l’irreversibilità e antagonizzare le forme di esclusione, si producono forme di cronicizzazione e dipendenza che opacizzano i vissuti, a volte intere esistenze. E, a corollario di quella che Piro chiama religione psicofarmacologica(27), laddove si evidenziano forme patologiche classificate “farmaco – resistenti”, la psichiatria non rinuncia al suo armamentario più violento, dalla psicochirurgia all’elettroshock, fino alle più moderne e sofisticate tecniche di brain modulation, lungo un cammino in cui diventa labile il confine tra curare e punire(28).
Strumenti di guerra quotidiana: arrivano i taser
Quando, nel giugno 2018, il ventunenne Jefferson Garcia Tomalà viene ucciso dai colpi di pistola esplosi (secondo la ricostruzione della Questura), dopo una colluttazione col giovane armato di coltello, da uno dei due agenti della Polizia di Stato giunti sul luogo con un medico per rispondere a una richiesta di emergenza psichiatrica, l’allora capo della Polizia Franco Gabrielli dichiara: «Presto i poliziotti avranno in dotazione i taser, così potranno agire in ulteriori condizioni di sicurezza e non arrecare danno eccessivo alle persone in certi interventi»(29). Prevista dai vari “Decreti sicurezza” e quindi arrivata in dotazione, dal 14 marzo 2022, in 18 città italiane, a Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza (mentre in molte città si discute di dotarne anche le polizie locali, e il Consiglio comunale di Roma ha già approvato una mozione in tal senso), la pistola elettrica, già durante il periodo di sperimentazione, il 12 maggio 2019, è stata utilizzata su un uomo ricoverato al Diagnosi e cura del Santa Maria Annunziata di Firenze(30). Lo strumento, al di là degli entusiasmi propagandistici con cui, da alcuni, è stato accolto, è estremamente controverso: già nel 2007, la Commissione contro la tortura delle Nazioni Unite ha espresso un giudizio fortemente negativo avverso all’adozione delle armi elettriche previste allora dal Portogallo, arrivando a definirle “strumenti di tortura” il cui utilizzo viola le previsioni della “Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani, degradanti”(31). Anche Amnesty International ha sottolineato come gli shock inflitti potrebbero equivalere a trattamenti degradanti o tortura(32). Negli Usa, dove sono utilizzate da tempo, si è sviluppata una vasta letteratura scientifica che evidenzia i gravi rischi di morbilità e mortalità legati all’utilizzo delle armi a impulsi elettrici, soprattutto su alcuni soggetti fragili come i pazienti psichiatrici(33). Agenzie di stampa come la “Reuters”, hanno condotto importanti e approfondite inchieste dalle quali sono emersi dati allarmanti, a partire dal numero di morti collegate all’utilizzo del taser (34).
Di certo, soprattutto in campo psichiatrico, il ricorso al taser si configura come una misura di contenimento particolarmente violenta, e si fa fatica a collegarne l’utilizzo a un intervento sanitario o, addirittura, a ipotizzarlo come risolutivo per le urgenze psichiatriche o per i trattamenti sanitari obbligatori, anche quelli più complessi. Sembra, piuttosto, essere parte di una strategia militare.
Vittime di guerra quotidiana: bambini con l’etichetta
All’interno del più complessivo dispositivo di medicalizzazione della vita, le famiglie e le scuole sono diventate teatri di un poderoso processo di normalizzazione di standard di comportamento e di obiettivi da perseguire, sempre più numerosi e performanti, il cui mancato raggiungimento non pone in discussione il modello di riferimento o le strutture, scolastiche, familiari, sociali, nelle quali si realizza: piuttosto colpevolizza gli attori considerati “inadeguati” al ruolo. “Bambini con l’etichetta” li ha chiamati in un prezioso lavoro Michele Zappella(35), tra i più autorevoli neuropsichiatri infantili italiani, indagando cattive diagnosi e processi di esclusione che accompagnano migliaia di ragazzini individuati come dislessici, autistici, iperattivi.
Così, ad esempio, nella scuola degli ultimi due decenni, in nome dell’inclusione e dell’abilismo, si è assistito alla crescita esponenziale di piccoli alunni che “necessitano del sostegno” o “con Bisogni Educativi Speciali”. Bambini per i quali, in assenza di una adeguata analisi sociale e familiare, la mancata conformità di comportamento o il mancato raggiungimento di parametri di efficienza determinano una definizione patologica che può variare dalle varie gradazioni del “ritardo mentale” (le cattive espressioni evidentemente perdurano in questo orizzonte) all’ADHD, fino alle varie gradazioni di un sempre più ampio (quanto etereo, inafferrabile e minaccioso) “spettro autistico”. Spesso, anche in casi di specifici bisogni clinici, si definiscono inquadramenti diagnostici sempre più standardizzati, a volte fallaci, con conseguenti risposte educative, riabilitative e sanitarie (compresa la prescrizione massiva di psicofarmaci) inadatte e in alcuni casi dannose. Un fenomeno che si espande anche all’età pre-scolare e determina, sin dalla più tenera infanzia, una “carriera morale” del futuro “soggetto disadattato”.
Si assiste ad un processo di deresponsabilizzazione sociale ed educativa, cui le famiglie, più o meno consapevolmente, partecipano, e che ha generato anche un imponente indotto economico ed occupazionale, nel quale trovano ristoro precari dell’insegnamento, tecnici dei saperi psi, case farmaceutiche. I saperi educativi e il ruolo stesso delle agenzie educative, compresa la famiglia, sono stati destrutturati al fine di adeguarsi e adeguare alle categorie piatte dell’abilismo di mercato. Soprattutto, questo processo di normalizzazione dell’etichettamento patologico infantile (che definisce una visione del mondo e produce i correlati discorsi di verità) si ritrova nella programmazione politico-economico ed educativa, nei percorsi scolastici, nel racconto mediatico, finanche nello sguardo stesso dei genitori.
Porre l’attenzione su quanto accaduto e continua ad accadere nell’universo infantile ci dice, allora, anche della necessità di affrontare il tema della salute mentale, superando lo specialismo disciplinare psichiatrico e ponendolo al centro di un dibattito pubblico di ampio respiro, capace di intersecare e tenere insieme più ambiti tematici e discorsivi, a partire proprio da quello educativo. Educarci ed educare alla pace, costruire percorsi educativi che tematizzino e pratichino la pace, dovrebbe essere il primo antidoto a questo tempo di guerra.
Conclusioni: costruire la pace
In questi primi mesi dall’invasione russa in Ucraina spesso, anche chi ha posto la necessità della pace, lo ha fatto a partire dal rischio di una guerra nucleare. Un conflitto bellico mondiale, è evidente, metterebbe a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana. Tuttavia, in questo ordine discorsivo, che pure certamente affronta una questione centrale, si pone, infine, la scelta tra pace e guerra attraverso una sorta di utilitarismo nichilistico che opera per sottrazione e appare congiunturale. Per paradosso, in questa prospettiva, si potrebbe giungere ad affermare che, messe a bando le armi nucleari, la guerra possa essere giustificata. Costruire la pace non perché abbia valore d’uso o di scambio, ma assumendola, in una dialettica utopistica e quindi reale, come opzione che è valore in sé, costitutiva di una societas capace di accettare la sfida della Storia in senso evolutivo e non come eterno ritorno dell’identico, necessita di un impegno trasformativo autentico e transgenerazionale: «La guerra non si antagonizza con un pacifismo generico, qualunquistico o clericale, bensì – probabilmente – con un lungo, composito, contraddittorio e multicolore sforzo trasformazionale, che potrebbe impegnare diverse successive generazioni»(36).
In questo impegno per la pace, rientra anche il lavoro per superare quella che Eugenio Borgna chiama L’agonia della psichiatria: «Una nuova rivoluzione sarebbe oggi necessaria: quella che ridia slancio e passione ai contenuti della legge riforma, e che abbia ad arginare le inerzie e la indifferenza, la dipendenza farmacologica e tecnologica, e la presenza di una opinione pubblica, divenuta estranea al tema della psichiatria e della assistenza in psichiatria, che negli ultimi anni del secolo scorso infiammava gli animi e si accompagnava coralmente agli ideali della riforma»(37).
Perché l’auspicio di Borgna si realizzi pensiamo, però, con Piro, che si debba portare il nostro sguardo e praticare il nostro impegno su un orizzonte più vasto di quello delle “discipline psi”.
La cura per la sofferenza oscura e la lotta contro le forme di esclusione subite da chi la attraversa, riconoscendone il legame con i più complessivi fenomeni di guerra ed esclusione, assume, infatti, valenza politica, e si ridefinisce all’interno di un più vasto panorama d’azione: «L’impegno contro l’esclusione sociale circoscritta nella sofferenza oscura, sia pur nella molteplicità degli orientamenti e nella varietà frammentata delle prassi, è espressione della coscienza delle dimensioni generali dell’esclusione e della guerra e del conseguente impegno antagonistico; è una prassi che ha un senso autentico e complessivo solo se è legata all’orizzonte vasto dell’impegno politico per la pace, per l’eguaglianza planetaria dei diritti umani, per la giustizia sociale e il pari diritto di accesso alle risorse, per la libertà, per la fine del terrorismo materiale e culturale contro i popoli oppressi e contro le fasce indifese»(38).
Se la guerra non è uno stato naturale delle cose, altrettanto la pace non può essere ricondotta al destino, necessita di essere sognata, pensata, praticata. Magari, a partire dalla gioia e dalla tenerezza di cui è capace una filastrocca:
Dopo la pioggia viene il sereno,
brilla in cielo l'arcobaleno:
è come un ponte imbandierato
e il sole vi passa, festeggiato.
È bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede - questo è il male -
soltanto dopo il temporale.
Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa sì che sarebbe una festa.
Sarebbe una festa per tutta la terra
fare la pace prima della guerra(39).
Note
(1) - Cfr. COVID-19 Excess Mortality Collaborators, Estimating excess mortality due to the COVID-19 pandemic: a systematic analysis of COVID-19-related mortality, 2020–21, in “The Lancet”, 10 marzo 2022, on line all’indirizzo https://doi.org/10.1016/S0140-6736(21)02796-3
(2) - Per una prima panoramica sui conflitti attivi nel mondo si rinvia ai dati forniti dall’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), consultabili all’indirizzo https://acleddata.com/#/dashboard e alle pubblicazioni annuali dell’Atlante dei conflitti e delle guerre nel mondo, cfr. https://www.atlanteguerre.it/
(3) - S. Piro, Esclusione sofferenza guerra: tesi provvisorie approvate dall’Operativo esclusione sofferenza, , Città del Sole, Napoli, 2002. In questo capitolo si utilizzerà il testo come ripubblicato dall’autore con il titolo Tesi provvisorie sulla guerra, sull’esclusione sociale, sulla privazione dei diritti, sulla sofferenza oscura, in “Rivista sperimentale di freniatria”, VOL. CXXIX, N. 1, 2005, pp. 27-52, indicando esclusivamente il numero della tesi citata.
(4) - Ivi, tesi 1
(5) - Ivi., tesi 1.2.
(6) - Ivi., tesi 1.5.
(7) - Ivi., tesi 2.2.
(8) - Ivi., tesi 2.2.1
(9) - Ivi., tesi 2.2.3
(10) - Ivi., tesi 3
(11) - Ivi., tesi 3.1, 3.1.1, 3.1.2.
(12) - Ivi., tesi 3.2.2, 3.3
(13) - Ivi, tesi 3.4.2
(14) - Ivi, tesi 7, 7.1, 7.1.1.
(15) - Ivi, tesi 7.1.2, 7.1.3.
(16) - Cfr. documento del “Comitato Verità e Giustizia per Wissem” consegnato agli organi di informazione in occasione della conferenza stampa di presentazione dello stesso Comitato, tenutasi il 14 marzo 2022 presso Associazione della Stampa Romana. Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla pagina fb del Comitato all’indirizzo https://www.facebook.com/ComitatoperWissem
(17) - Ivi.
(18) - Cfr. Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza n. 50497 del 20/06/2018 (depositata il 7 novembre 2018)
(19) - Cfr. Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, lettera-rapporto concernente la visita del 30 dicembre 2021 al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell'Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, consultabile sul portale del Garante all’indirizzo https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/dettaglio_contenuto/?contentId=CNG13330&modelId=10019
(20) - S. Piro, cit., tesi 4.2.3.
(21) - Cfr. T, Ivani, La Spezia, pazienti psichiatrici dietro le sbarre. La protesta dei parenti: “È inumano”, in “Il Secolo XIX” 27 marzo 2022, consultabile via web all’indirizzo https://www.ilsecoloxix.it/italia/2022/03/27/news/pazienti-psichiatrici-dietro-le-sbarre-la-protesta-dei-parenti-e-inumano-1.41332938
(22) - Ivi.
(23) - Cfr. Redazione Ansa, A Spezia visite a pazienti psichiatrici dietro le sbarre, agenzia del 28 marzo 2022 consultabile all’indirizzo https://www.ansa.it/liguria/notizie/2022/03/28/a-spezia-visite-a-pazienti-psichiatrici-dietro-le-sbarre_6027431e-0f74-42ed-a0f3-faa712ea6d6d.html
(24) - Il commento alla notizia è in un post del 30 marzo, consultabile sulla pagina fb della Fondazione Basaglia all’indirizzo https://www.facebook.com/fondazionebasaglia.
(25) - S. Piro, cit. tesi n. 4.
(26) - Ivi, tesi 4.0.
(27) - Ivi., tesi 4.2.5.
(28) - Per i primi approfondimenti su questi temi si permetta il rimando a A. Esposito, Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904-2019), ad est dell’equatore, Napoli, 2019, in particolare il cap. IX.
(29) - Cfr. G. Gaetano, Agente uccide 20enne durante il Tso. Gabrieli «Presto i taser ai poliziotti», in “Il corriere della sera”, edizione on line, 12 giugno 2018.
(30) - Cfr. Dispaccio Ansa 12 maggio 2019, A Firenze Taser su paziente psichiatrico, consultabile all’indirizzo https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/05/12/a-firenze-taser-su-paziente-psichiatrico_7489e108-6b0e-44bf-aa91-17136f70d49f.html
(31) - United Nations, Committee against torture, Thirty-ninth session Geneva, 5-23 November 2007, Consideration of reports submitted by states parties under article 19 of the convention. Conclusions and recommendations of the Committee against Torture Portugal, CAT/C/PRT/CO/4, 19 February 2008, consultabile sul portale del Comitato. Lo stesso Comitato tornerà sull’uso del taser e, seppure con dichiarazioni meno stringenti, ne raccomanderà la limitazione dell’utilizzo solo in casi di estrema necessità e in sostituzione di armi letali (Cfr. United Nations, Committee against torture, Concluding observations on the combined fifth and sixth periodic reports of Portugal, CAT/C/PRT/ CO/5-6, 23 December 2013, consultabile sul portale del Comitato, www.ohchr.org).
(32) - Amnesty International, Omega Research Foundation, The human rights impact of less lethal weapons and other law enforcement equipment, London, 2015, p. 21.
(33) - Si rimanda a uno studio condotto dal Criminal Justice Center della Stanford University, che, oltre ai risultati della ricerca realizzata, risulta particolarmente utile anche per reperire una prima bibliografia di merito: J. Neuscheler, A. Freidlin, Report on Electronic Control Weapons (ECWs). Submitted to the city of Berkley, giugno 2015, consultabile on line sul portale https://www-cdn.law.stanford.edu/.
(34) - L’importante lavoro di inchiesta dal titolo Shock Tactics. Inside the Taser, the weapon that transformed policing , è consultabile sul portale della Reuters all’indirizzo https://www.reuters.com/investigates/section/usa-taser/
(35) - Cfr. M. Zappella, Bambini con l’etichetta. Dislessici, autistici e iperattivi: cattive diagnosi ed esclusione, Feltrinelli, Milano, 2021
(36) - S. Piro, cit., tesi 2.3.
(37) - E. Borgna, L’agonia della psichiatria, Feltrinelli, Milano, 2022, pp. 23,24.
(38) - S. Piro, cit., tesi
(39) - G. Rodari, Dopo la pioggia, in Id., Filastrocche in Cielo e in terra, disegni di Bruno Munari, Einaudi, Torino, 1960
Vincenzo “Bobò” Cannavacciuolo
“Ci può essere una grande bellezza in persone che la società ha etichettato come matte, down, e via dicendo...”. Queste parole riassumono bene il valore del teatro dell’attore e regista genovese Pippo Delbono. Parole che calzano a pennello quando si pensa a uno degli attori più conosciuti della compagnia di Delbono: Bobò. Con Pippo hanno recitato tanti attori bravi e dal passato illustre, ma nessuno era come Bobò, per alcuni semplici motivi: Bobò era sordomuto, affetto da microcefalia e con problemi di deambulazione e, inoltre, aveva trascorso circa 50 anni nel manicomio di Aversa, dove neanche sapeva cosa fosse, il teatro. Vincenzo Cannavacciuolo nacque in provincia di Caserta nel 1936: aveva un gemello, morto in tenera età. Assistette alla liberazione di Napoli, pochi anni prima di vedere, al contrario, l’inizio della sua personale prigionia. Nel 1952 venne infatti internato nel manicomio di Aversa. L’unico destino apparentemente possibile, per “quelli come lui”. Celati, nascosti agli occhi della società e confinati in spazi chiusi e dai quali si può uscire solo con grandi difficoltà. Calò un velo d’ombra sulla vita di Vincenzo, almeno fino al 1996.
L’incontro con Pippo Delbono, che si trovava nell’istituto di Aversa per un laboratorio teatrale, cambierà la vita di Bobò. E anche quella di Pippo, che notò immediatamente questo ometto piccolo ma dal volto incredibilmente espressivo, sempre sorridente ed estremamente pacifico. Un incontro prezioso in un momento in cui il regista usciva da un periodo difficile dal punto di vista personale. Bobò lo attendeva ogni mattina con una bandierina. Adorava le bandiere, specie quelle delle squadre di calcio. Poi, ogni sera, lo riaccompagnava all’uscita. Finché, un giorno, andarono via insieme. Da allora, Bobò entrò stabilmente nella compagnia teatrale di Pippo Delbono, assunto con regolare contratto e con ruoli sempre di primo piano in ogni spettacolo, sin da uno dei primi, “Barboni”, nel quale recitò come protagonista assoluto.
Perché Bobò non parla, ma ogni suo gesto è poesia; non sente, eccetto alcuni toni molto bassi, ma è sempre attento e non sbaglia mai una scena; non è normodotato ma ha un’espressività più unica che rara. In scena sa essere un boxer, un mafioso, un clown, un sindaco, un prete, un calciatore. È la grande bellezza citata sopra, è un urlo di rabbia contro l’ottusità delle istituzioni psichiatriche, che sopravvive nonostante il tempo sia andato avanti, nonostante Franco Basaglia e la riforma, nonostante i pregiudizi. Bobò, Pippo e tutta la compagnia girano il mondo, visitano l’America Latina, l’Asia e tutti i continenti. E persino la Palestina, in un’esperienza tra guerra e speranza, tra teatro e bombe. Il teatro rimarrà per sempre la sua vita, fino all’ultimo spettacolo, “La Gioia”. Più precisamente fino al primo febbraio del 2019, quando Bobò lasciò per sempre questo mondo. La sua eredità sono i sorrisi, i personaggi e la bellezza che è stato in grado di regalare al mondo.