Il punto della situazione
Il 2021 ha segnato un anno di vera e propria svolta per il diritto alla protezione dei dati personali. Tre sono, in particolare, le direttrici lungo cui si è articolata un’evoluzione del tutto particolare di questo diritto: la biosorveglianza e, in generale, le misure di sanità pubblica funzionali al contenimento della pandemia; la violenza della rete (soprattutto tra i minori); l’attività giurisdizionale. In relazione a ciascuno di questi tre aspetti, il 2021 ha segnato innovazioni importanti, che si sono peraltro tradotte in riforme normative di rilievo.
Sul terreno della sanità pubblica, per approssimazioni successive si è riusciti a delineare un equilibrio democraticamente sostenibile tra esigenze di contrasto della pandemia e privacy, utilizzando le nuove tecnologie, per una volta almeno, a favore della riservatezza.
Rispetto al web, la vicenda della morte di una bambina nel contesto di “sfide” istigative al suicidio lanciate on line ha indotto una riflessione profonda e trasversale, da un lato sull’accesso ai social da parte dei minori, in assenza della necessaria consapevolezza e, dall’altro, sul tasso di violenza che può caratterizzare, con effetti anche fatali, la rete.
Sul rapporto tra giustizia, sicurezza e privacy l’esigenza di adeguamento alla disciplina europea ha favorito la definitiva approvazione di riforme - di cui da tempo si discuteva, pur senza la necessaria determinazione- con effetti che si annunciano importanti.
Queste innovazioni sono, certamente, il frutto dello sviluppo di tendenze che si stavano già da tempo consolidando, ma la cui definitiva affermazione denota una nuova consapevolezza dell’importanza, anche in termini democratici, del diritto alla protezione dei dati personali, quale presupposto di libertà e dignità della persona.
E tuttavia, proprio la virtualizzazione della vita determinata dal distanziamento sociale conseguente alla pandemia ha reso evidente l’urgenza di superare il divario digitale (dovuto tanto all’età quanto all’insufficienza di risorse economiche) che tuttora caratterizza ampie fasce della popolazione. Come ha documentato il Rapporto Censis «Il valore della connettività nell’Italia del dopo Covid-19», infatti, l’86,3% degli italiani (il 93,6% tra i giovani) ritiene che l’accesso a internet debba essere garantito a tutti, ovunque e comunque. Per l’80,2% (l’85,2% dei giovani) i costi di connessione dovrebbero essere finanziati, per intero o in parte, dalla fiscalità generale, rimuovendo ogni barriera d’accesso, a partire da quella economica. Si tratta di temi ineludibili nel momento in cui l’accesso alla rete diviene, di fatto, un pre-requisito per l’esercizio di pressoché tutti i diritti fondamentali.
Per altro verso, va garantito un accesso consapevole alla rete, con un’adeguata alfabetizzazione digitale, non solo dei giovani. In assenza di un grado di consapevolezza sufficiente, infatti, le risorse digitali possono rappresentare un patrimonio di fatto inaccessibile o, addirittura, una fonte di potenziali rischi e di esposizione alla violenza che spesso caratterizza la rete.
Sanità pubblica e libertà
Tra le varie problematiche connesse al governo dell’emergenza (pandemica), quella relativa all’uso della tecnologia a fini di prevenzione sanitaria si è rivelata una delle più complesse.
La definizione dei limiti da porre alla tecnica, per favorirne un uso “sostenibile” tale da non degenerare in forme di sorveglianza massiva ha, infatti, rappresentato uno degli elementi discretivi dell’approccio europeo al contrasto della pandemia, rispetto ad altri modelli fondati su di un ampio ricorso al digitale, ma anche sul controllo capillare dei cittadini.
La “differenza europea”, su questo terreno, è emersa con particolare nettezza rispetto a due importanti misure di contenimento dei contagi: il contact tracing digitale e il green pass.
Già dai primi mesi di pandemia, infatti, con la scelta di un sistema di contact tracing che tracciasse i contatti, non le persone, e il rifiuto della georeferenziazione costante dei cittadini, l’Europa ha delineato un equilibrio democraticamente sostenibile tra salute (nella sua duplice componente di diritto fondamentale e interesse collettivo), tecnica e libertà.
Lo stesso bilanciamento è, del resto, sotteso alla disciplina europea delle certificazioni verdi, che con il Regolamento 2021/953 ha promosso uno strumento (temporaneo) di prevenzione dei contagi profondamente diverso dai “passaporti sanitari” o dalle altre misure di biosorveglianza proprie, ad esempio, del sistema cinese. Le componenti essenziali del green pass europeo rappresentano, anche in questo caso, il frutto di un ricorso lungimirante alla tecnica, tale da realizzare uno strumento di contenimento dei contagi efficace, ma anche idoneo a minimizzare l’impatto sulla privacy. Garantendo riservatezza sul suo presupposto (vaccino, guarigione, negatività al tampone), il green pass ha anche impedito forme, dirette o indirette, di discriminazione nei confronti di quanti non possano o non vogliano vaccinarsi, pur rappresentando indubbiamente, esso stesso, una forma di “nudging”, di promozione della vaccinazione.
La previsione di presupposti, alternativi alla vaccinazione, suscettibili di determinare il conseguimento del green pass ne esclude, tuttavia, la configurabilità alla stregua di obbligo surrettizio di vaccinazione, assimilandolo invece alla figura giuridica dell’onere. Tale, infatti, è stata la qualificazione fornita dalla Corte costituzionale (sent. 137 del 2019) della previsione di una legge regionale relativa alla subordinazione dell’accesso, da parte del personale sanitario, a determinati reparti ospedalieri, alla sottoposizione a vaccinazioni solo raccomandate dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale.
E anche sulla base di tali garanzie che, sia in Italia che in Francia, sono state respinte le principali eccezioni d’illegittimità di tale istituto. Con pronuncia n. 824 del 5 agosto, infatti, il Conseil Constitutionnel ha escluso profili di illegittimità della disciplina francese delle certificazioni verdi, in quanto di carattere temporaneo, conforme al canone di ragionevolezza e proporzionalità perché efficace in termini di prevenzione sanitaria e non tale da imporre un obbligo terapeutico coercitivo, non essendo il vaccino l’unico presupposto per il rilascio del titolo.
Argomentando, poi, proprio sulle garanzie di privacy offerte in particolare dalla disciplina attuativa (d.P.C.M. 17 giugno 2021), l’ordinanza n. 5130 della Terza Sezione del Consiglio di Stato ha potuto escludere la sussistenza di “lesioni della riservatezza sanitaria” in relazione all’obbligo di esibizione del green pass ex art. 9, c.10. d.l. 52 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. 87 del 2021. Grazie a soluzioni tecnologiche innovative, infatti, il green pass viene mostrato solo nel suo qr code, che nulla ci dice sul presupposto di rilascio (vaccino, guarigione, tampone), così non fornendo informazioni su scelte personali di ciascuno, che devono restare riservate. In tal modo si sono potute anche evitare potenziali discriminazioni nei confronti dei non vaccinati (per scelta o per necessità).
Sono state (anche) le garanzie di riservatezza assicurate dal green pass ad averne favorito la graduale estensione, anche in Italia, a partire dal d.l. 52 del 2021 e con i successivi dd.ll. 105, 111, 121, 127, 172, che ne hanno ampliato l’ambito applicativo dapprima agli spostamenti tra regioni di colore diverso (d.l. 52 stesso), poi alla partecipazione a eventi o attività suscettibili di determinare una significativa concentrazione di persone o, comunque, condizione di potenziale circolazione virale (d.l. 105), quindi al settore dell’istruzione e dei trasporti (d.l. 111), al personale esterno di scuole e RSA, al mondo del lavoro (d.l. 127), distinguendo poi per l’accesso a determinati servizi i soli green pass da vaccino o guarigione (super green pass).
Complessivamente, l’attenzione alla privacy ha contribuito a delineare la disciplina del green pass in modo da garantire la libertà di ciascuno di scegliere se vaccinarsi o no, senza per questo subire discriminazioni e da evitare una sorveglianza massiva sulle condizioni soggettive dei cittadini.
Social, minori, fragilità
La vicenda della bambina di dieci anni che, a gennaio 2021, ha perso la vita a causa di “sfide” letali su Tik Tok ha reso evidente quanto la “vita sui social” rappresenti sempre più spesso un’occasione di inconsapevole fragilità. Il capitalismo “estrattivo” delle piattaforme, aduse a sfruttare come ingente risorsa economica quei frammenti di noi che sono i nostri dati, rischia infatti di amplificare ulteriormente le condizioni di fragilità (per condizione ontologica, per relazione, per contesto) che caratterizzano la persona. Questo rischio è tanto più rilevante per i minori, che fanno esperienza della rete senza la necessaria consapevolezza e sono dunque più esposti a violenza, abusi, hate speech, persino al coinvolgimento in attività pericolose, come “sfide” istigative al suicidio. Proprio al fine di impedire l’accesso autonomo dei minori di 14 anni alla rete, a gennaio 2022 il Garante ha adottato un provvedimento, nei confronti di Tik Tok, per imporre sistemi di age verification efficaci. Il senso del provvedimento è, in fondo, questo: rendere la rete un ambiente, se non sicuro, almeno meno inospitale di quanto ci ha mostrato, invece, di essere. Il punto di partenza è garantire la verifica effettiva dell’età degli utenti per impedire che minori anche piccoli accedano, in assoluta solitudine, a “giochi” e mondi troppo più grandi di loro. Ma i passi successivi da compiere sono l’effettiva responsabilità per i contenuti illeciti diffusi in rete (di cui ad esempio il Garante può ordinare la rimozione in casi di cyberbullismo) e la promozione di una vera e propria pedagogia digitale con la quale, soltanto, possiamo proteggere i nostri ragazzi (e insegnare loro a proteggersi) dalle insidie del web, senza tuttavia rinunciare a quella che rappresenta, pur sempre, una forma di socialità ormai difficilmente rinunciabile.
Bisogna agire su due fronti: la responsabilità primaria e preventiva rispetto all’accertamento dell’età degli utenti e la responsabilità secondaria rispetto all’obbligo di rimozione di contenuti illeciti (perché ad esempio istigativi al suicidio). Su quest’ultimo profilo interviene il ddl AS 2086, che introduce una nuova procedura per la rimozione dei contenuti istigativi al suicidio, fondata sul potere decisionale del Garante in caso di mancato adempimento spontaneo alla richiesta di rimozione.
Naturalmente molti altri sono i rischi connessi a un uso distorto del web, riguardanti non solo i minori: dai furti d’identità all’hate speech, dalle discriminazioni le più varie al conformismo dovuto alle “bolle di filtri” che tendono a riproporre all’utente contenuti analoghi a quelli già ricercati, riducendo dunque il confronto con idee diverse.
Ma un fenomeno in crescente ascesa è quello del revenge porn, ovvero della diffusione in rete di foto intime, sessualmente esplicite, in danno di chi vi sia rappresentato. A fronte del dilagare di questa condotta criminosa e dell’esigenza di rimuovere quanto prima dalla rete i contenuti diffusi illecitamente, il d.l. 139 del 2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 205 del 2021 ha attribuito al Garante la competenza a decidere sulle istanze di rimozione di contenuti istigativi all’autolesionismo che non siano già stati cancellati dalla piattaforma a seguito di specifica richiesta. Si tratta di un’innovazione importante, nella misura in cui introduce una procedura agile, celere e dunque compatibile con i tempi del web e con l’esigenza di bloccare quanto prima possibile la catena delle condivisioni virali che rischiano di danneggiare, in modo spesso irreparabile, la dignità delle persone.
La rete deve smettere di essere il luogo di scherno del soggetto più vulnerabile, per rappresentare invece lo spazio in cui ritessere i legami sociali in chiave solidarista e pluralista, valorizzando le differenze come inestimabile ricchezza.
Giustizia e dignità
Il rapporto tra giustizia e privacy è stato oggetto, nel 2021, di innovazioni molto significative, soprattutto per effetto della disciplina europea. In particolare tre sono gli aspetti interessati da modifiche normative, compiute o quantomeno annunciate: la disciplina di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici a fini di giustizia; la presunzione d’innocenza, l’oblio da accordare ai prosciolti.
Si tratta di riforme di assoluto rilievo, di cui si discute da anni, ma che per effetto della disciplina europea e, in sinergia, del cambio di Governo, sono state approvate nel corso dell’anno, determinando complessivamente un mutamento importante nel più generale equilibrio dei rapporti tra giustizia e privacy, sicurezza e libertà.
Al di là degli aspetti e delle peculiarità specifici di ciascuna riforma, ciò che interessa in modo particolare è il rilievo ascritto alla privacy e alla dignità del soggetto, secondo un bilanciamento con l’interesse all’accertamento dei reati, per molti aspetti innovativo.
I tabulati
Con sentenza del 2 marzo 2021, la Corte di giustizia UE ha affermato l’esigenza di subordinare l’acquisizione a fini di giustizia dei tabulati telefonici e telematici all’autorizzazione di un’autorità terza, come il giudice e non il pubblico ministero, comunque limitatamente a procedimenti per reati gravi. In linea con tali indicazioni, il decreto-legge 123/21 ha disposto la piena giurisdizionalizzazione della procedura di acquisizione e limitato l’ammissibilità di tale mezzo investigativo ai soli procedimenti per reati connotati da una determinata gravità, in presenza di sufficienti indizi e della rilevanza dell’acquisizione ai fini dell’accertamento dei fatti.
Le differenze riscontrabili con la disciplina delle intercettazioni, che pure si mutua nelle coordinate essenziali (attinenti alla sufficienza e non alla gravità indiziaria; alla categoria dei delitti per i quali si ammettono le operazioni; alla rilevanza, anziché l’assoluta indispensabilità investigativa dei dati stessi; ai termini per la convalida nei casi d’urgenza) possono ritenersi condivisibili, in ragione della minore invasività del mezzo rispetto a quello intercettivo.
In particolare, ai fini della definizione della gravità dei reati per i quali si ammette l’acquisizione dei tabulati, pare ragionevole la previsione della comminatoria edittale massima di tre anni (considerata ad esempio ai fini della emissione del mandato d’arresto europeo dalla decisione quadro 2202/548/GAI), combinata con i parametri, da apprezzare in concreto, della sufficienza indiziaria e della rilevanza investigativa del dato da acquisire e con la previsione ad hoc dei reati di minaccia e molestie telefoniche.
Anche la disciplina della procedura d’urgenza salvaguarda, pur nella peculiarità che ne caratterizza l’oggetto, l’esigenza della giurisdizionalizzazione piena della procedura acquisitiva e della sua limitazione ai soli reati connotati da sufficiente gravità.
In sede di conversione è stata, inoltre, espressamente prevista l’inutilizzabilità dei dati acquisiti in violazione delle regole di acquisizione (ordinaria e d’urgenza) su descritte. Sempre con l’esame parlamentare è stata, peraltro, introdotta una disciplina transitoria che condiziona l’utilizzabilità processuale, a carico dell’imputato, dei tabulati già acquisiti prima della data di entrata in vigore della novella, alla concorrenza di altri elementi di prova e alla esclusiva finalizzazione all'accertamento dei reati per i quali, secondo la disciplina “a regime”, l’acquisizione è ammessa.
Se è, infatti, necessario – come riconoscono anche buona parte delle sentenze sinora pronunciatesi – che i principi sanciti dalla Corte (e, dunque, l’attuazione propostane con il decreto-legge) trovino applicazione anche ai procedimenti in corso, era altrettanto necessario stabilire, senza rimetterne la soluzione a oscillanti scelte pretorie, i riflessi della nuova disciplina sul momento valutativo della prova già acquisita secondo la previgente normativa, viziata da incompatibilità pur sopravvenuta con la giurisprudenza europea.
Inoltre, con una novella di valenza più generale, relativa al contenuto del decreto del giudice che autorizza le intercettazioni mediante captatore informatico (c.d. trojan), si è previsto che le ragioni, da indicare nel decreto stesso, quali presupposti che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini, debbano essere “specifiche”.
Gli aspetti ulteriori meritevoli di riflessione, tuttavia non toccati dall’esame parlamentare del d.d.l. di conversione, riguardano, in primo luogo, l’adeguamento della disciplina della durata della conservazione dei tabulati alle indicazioni fornite dalla Corte di giustizia e, in particolare, al principio di proporzionalità enunciato in via generale dall’art. 52, p.1, CDFUE per le limitazioni dei diritti fondamentali.
Va, infatti, considerato che la direttiva CE 2006/24 (la quale prevedeva un termine massimo di conservazione di ventiquattro mesi) è stata invalidata dalla Corte per violazione, in particolare, del canone di proporzionalità (riferibile dunque anche alla durata della conservazione), secondo cui “le deroghe e le restrizioni alla tutela dei dati personali” devono intervenire “entro i limiti dello stretto necessario (sentenze del 16 dicembre 2008, Satakunnan Markkinapörssi e Satamedia, C-73/07, EU:C:2008:727, punto 56; del 9 novembre 2010, Volker und Markus Schecke e Eifert, C-92/09 e C-93/09, EU:C:2010:662, punto 77; Digital Rights, punto 52, nonché del 6 ottobre 2015, Schrems, C-362/14, EU:C:2015:650, punto 92)”.
Il termine di conservazione dei tabulati di settantadue mesi, previsto dalla disciplina vigente, andrebbe dunque ripensato alla luce di tale criterio, richiamato anche dalla più recente sentenza CGUE Privacy International del 6 ottobre 2020, C-623/17.
La presunzione d’innocenza
Il dlgs 188 del 2021, in vigore dal 14 dicembre, segna un passaggio importante nello statuto delle garanzie del processo penale e nel rapporto - complesso tanto quanto centrale per la democrazia – tra giustizia e informazione.
Sotto il profilo del metodo, rileva anzitutto la scelta parlamentare (derivante dall’accoglimento di un emendamento dell’On. Costa) di conferire al Governo una nuova delega per l’attuazione della direttiva (UE) 2016/343(il cui termine di recepimento era scaduto il 1^ aprile 2018). Una prima delega era, infatti, stata già prevista dalla l. 163 del 2017, ma non era stata esercitata ritenendosi l’ordinamento interno già conforme alla direttiva. La valutazione è tuttavia mutata con la prima Relazione della Commissione europea, del 31 marzo scorso, sullo stato di attuazione della direttiva, rendendo così opportuna anche ad avviso del Governo (che ha reso parere favorevole sull’emendamento) la reintroduzione della delega legislativa all’interno del d.d.l. di delegazione europea e, successivamente, l’emanazione del decreto legislativo in tempi celeri.
E che si tratti di un tassello ulteriore (non certo l’unico) nel mosaico di norme interne a tutela della presunzione d’innocenza (nella sua dimensione processuale ed extraprocessuale) è evidente sin dal titolo del decreto legislativo, che individua nel “compiuto adeguamento” della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva l’obiettivo delle norme introdotte. Gli aspetti più innovativi della direttiva che il Governo ha ritenuto necessario recepire con disposizioni specifiche riguardano, in particolare, il diritto dell’indagato e dell’imputato:
- a non essere oggetto di dichiarazioni di autorità pubbliche o di decisioni giudiziarie diverse da quelle relative alla responsabilità penale, in cui esso venga pubblicamente presentato come colpevole, nonostante la mancata conclusione del processo (art. 4);
- a non essere sottoposto a mezzi di coercizione fisica anche in aula di udienza, durante il processo, o comunque in altre circostanze pubbliche, salva la necessità per specifiche esigenze di sicurezza (art. 5):
- a disporre in caso di violazione di tali garanzie di un ricorso effettivo (art. 10), ovvero di un rimedio processuale tale da “porre l'indagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa” (C 44).
Benché “integrative” rispetto al quadro normativo vigente (art. 1 del d.lgs.), quelle previste dal d.lgs. 188 sono, tuttavia, disposizioni di notevole rilevanza. Esse, infatti sanciscono non soltanto un articolato sistema di tutele (anche remediali) del diritto dell’indagato o dell’imputato a non essere indicato “pubblicamente come colpevole” finché non ne sia definitivamente accertata la colpevolezza, ma anche nuove modalità di gestione della comunicazione giudiziaria, suscettibili di avere effetti importanti sulla qualità dell’informazione. Parallelamente a queste garanzie extraprocessuali della presunzione d’innocenza, (intesa non solo “come canone di giudizio ma anche come “canone di trattamento” dell’indagato e dell’imputato nella fase antecedente ad una pronuncia definitiva”(1)) l’articolo 4 introduce poi ulteriori, specifiche garanzie intraprocessuali, rilevanti (anche) quali parametri di redazione degli atti.
Sotto il primo profilo rileva, in particolare, l’articolo 2 del d.lgs. 188, che vieta alle “autorità pubbliche” (nozione lata, che non si limita dunque all’ambito giudiziario), di “indicare pubblicamente” l'indagato o l'imputato come "colpevole", prima dell’adozione di un provvedimento definitivo di condanna.
Quali rimedi attivabili in caso di violazione (ferme le eventuali responsabilità penali e disciplinari dell’autore), la norma prevede la tutela risarcitoria per equivalente (rispetto al danno, da ritenersi sia patrimoniale che non) e in forma specifica, da attuarsi nelle forme della rettifica, mediante un procedimento speciale rispetto a quello previsto in via generale dalla legge sulla stampa. A fronte dell’istanza di rettifica avanzata dall’interessato, l’autorità pubblica, ritenendo la richiesta fondata, è tenuta a disporre la rettifica (avvisandone l’interessato) entro 48 ore, con le stesse modalità proprie della dichiarazione contestata o, in caso d’impossibilità, con modalità tali da garantire alla rettifica lo stesso rilievo e lo stesso grado di diffusione che hanno caratterizzato la dichiarazione. In caso di mancato accoglimento dell’istanza o di esecuzione della rettifica con modalità diverse da quelle prescritte (proprio per assicurare corrispondenza e omogeneità formale della prima alla dichiarazione originaria), l’interessato ha facoltà di richiedere al tribunale l’ordine di pubblicazione della rettifica.
Particolarmente rilevante è, poi, l’articolo 3 che novella il decreto legislativo n. 106 del 2006, in relazione ai rapporti del procuratore della Repubblica con gli organi di informazione, innovandone la disciplina sull’an e sul quomodo. In particolare, si introduce un vincolo di esclusività nelle forme da osservare per la gestione di tali rapporti, circoscrivendole ai soli comunicati ufficiali o, nei casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, alle conferenze stampa, in quest’ultima ipotesi previa determinazione assunta con atto motivato in ordine alle “specifiche ragioni di pubblico interesse” legittimanti l’iniziativa(2). Con le stesse modalità, la polizia giudiziaria può essere autorizzata dal procuratore della Repubblica a fornire al pubblico informazioni sugli atti di indagine compiuti.
Le sole forme di comunicazione ammesse divengono, dunque, quelle ufficiali, con assunzione in capo allo stesso Procuratore della Repubblica della responsabilità in ordine alla scelta di attivare o meno la via, a maggiore risonanza, della conferenza stampa in ragione di specifiche ragioni di interesse pubblico che sono oggetto di uno specifico onere motivazionale.
In ordine all’an della comunicazione, lo stesso articolo subordina l’ammissibilità della “diffusione di informazioni sui procedimenti penali” a presupposti di stretta necessità (della diffusione stessa) per la prosecuzione delle indagini ovvero alla ricorrenza di “altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Si introduce anche un vincolo contenutistico all’informazione, precisando che le informazioni fornite alla stampa debbano chiarire la fase in cui il procedimento si trova e assicurare, in ogni caso, il diritto dell’indagato e dell'imputato a non essere indicati come colpevoli fino a condanna definitiva.
Si vieta infine l’assegnazione ai procedimenti penali pendenti, nell’ambito delle comunicazioni ufficiali, di denominazioni lesive della presunzione di innocenza. Si tratta di un criterio di sobrietà comunicativa (applicabile anche alle comunicazioni ufficiali della polizia giudiziaria) che, se osservato nella lettera e nella ratio, potrebbe essere utile a contenere anche la tendenza al sensazionalismo che spesso caratterizza la cronaca giudiziaria.
L’articolo 4 interviene, invece, sulla dimensione processuale della presunzione di innocenza, rendendola più espressamente criterio di redazione anche degli atti processuali. Con uno specifico articolo (il 115-bis, inserito tra le disposizioni generali del Libro II del codice di rito e rubricato "Garanzia della presunzione di innocenza"), si vieta l’indicazione come colpevole dell’indagato o dell’imputato, prima della condanna definitiva, nei provvedimenti adottati nel corso del procedimento, diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale e dagli atti con i quali il Pubblico Ministero tende a dimostrare la colpevolezza del soggetto.
Il rimedio attivabile in caso di ritenuta violazione del suddetto divieto consiste nell’istanza di correzione, necessaria alla salvaguardia della presunzione d’innocenza, da presentare - a pena di decadenza entro dieci giorni dalla conoscenza del provvedimento - al giudice procedente (il gip per le indagini preliminari), che provvede con decreto motivato entro 48 ore. Il decreto, che è notificato all'interessato e alle altre parti e comunicato al Pubblico Ministero, è opponibile al Presidente del Tribunale o della Corte (ovvero, ove siano opposti provvedimenti di questi ultimi, al presidente della Corte d’appello o al Presidente della Corte di cassazione).
Viene inoltre modificato l’articolo 474 c.p.p., in ordine al diritto dell'imputato di assistere all'udienza libero nella persona, anche se detenuto, salve in questo caso le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenza. Sul punto, il d.lgs. 188 precisa che le eventuali cautele sono disposte dal giudice con ordinanza, sentite le parti e devono essere rimosse con revoca dell'ordinanza quando ne siano cessati i presupposti. Si impone, poi, di garantire sempre il diritto dell'imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili.
Tali ultime modifiche muovono dall’esigenza di garantire una maggiore conformità al diritto – sancito dall’articolo 5 della direttiva in capo all’imputato e all’indagato - di non essere presentato come colpevole, in tribunale o in pubblico, mediante il ricorso a misure di coercizione fisica. Si tratta di un’implicazione delicatissima della presunzione d’innocenza, che attiene a una prassi – più volte denunciata dal Garante per la protezione dei dati personali, nei confronti degli organi d’informazione ma anche, talora, della stessa polizia giudiziaria - fortemente lesiva della dignità della persona
Anche sotto questo profilo, dunque, il d.lgs. 188 potrebbe indurre, effettivamente, un mutamento importante nella comunicazione sulla giustizia; non solo per le disposizioni introdotte ma anche per le ragioni che sottendono e la “cultura” che intendono promuovere.
L’oblio dei prosciolti
L’art. 1, c. 25, l. 134/21 introduce, quale ulteriore criterio direttivo per l’esercizio della delega in materia di riforma del processo penale, la previsione secondo cui il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’U.E. in materia di protezione dei dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati.
La norma mira a garantire a indagati o imputati, destinatari di provvedimenti favorevoli, una specifica tutela al diritto “all’oblio”, nella declinazione peculiare (ulteriore rispetto al diritto alla non ripubblicazione e al diritto alla rettifica e all’aggiornamento di notizie obsolete) del diritto al “delisting” o deindicizzazione (dis-associazione del nominativo del singolo a specifici contenuti on-line).
Si garantisce in tal modo anche il diritto alla presunzione d’innocenza del soggetto delle cui imputazioni, accertata l’estraneità ai fatti, si impone appunto l’oblio.
Tra poteri privati, orizzonte europeo e tutela delle vulnerabilità: il nuovo ruolo della protezione dati
Il dl 139/21, come si è detto, ha esteso la competenza del Garante a decidere sulle istanze di rimozione di contenuti riconducibili al revenge porn, mentre provvedimenti in itinere attribuiscono all’Autorità la funzione di decidere sulle richieste di rimozione di contenuti istigativi all’autolesionismo. Si consolida dunque, sempre di più, la funzione di tutela del Garante dei soggetti più vulnerabili (perché vittime delle altrui condotte illecite, violente, abusanti) rispetto ai “poteri privati” delle piattaforme e all’uso distorsivo della rete. Si tratta di una funzione tanto più rilevante a fronte della progressiva maggiore centralità che internet assume nella nostra vita. Se il diritto all’accesso ad internet si configura sempre più come fondamentale, va garantito al contempo un accesso alla rete che sia libero da violenza e discriminazione, che non ricrei sul web altrettante se non maggiori vulnerabilità di quelle proprie della vita off-line.
La normativa europea consolida ulteriormente questa tendenza, con progetti normativi (come il Digital Services Act o il Digital Markets Act) tesi a responsabilizzare ulteriormente i gestori delle piattaforme, limitandone il potere e imponendo loro obblighi anche di tutela degli utenti. Su questa strada la protezione dati svolgerà un ruolo sempre più determinante, perché la rete non tradisca quella promessa di inclusività, democrazia e pluralismo su cui è nata.
Note
(1) - N. Rossi, Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questionegiustizia.it
(2) - Quest’onere procedurale è stato introdotto nella versione finale del decreto legislativo, in recepimento di specifico rilievo contenuto nel parere delle Commissioni parlamentari.
Chelsea Manning
Quanto si paga la verità? Spesso molto, moltissimo, finanche troppo, in questo mondo. E vale a volte anche più della vita stessa. Quanto si è disposti a pagare per la verità come bene ultimo? Chelsea Manning era disposta a pagare tutto. Se tutto quello che subì fu troppo, sta a lei deciderlo. Nata nel 1987 a Crescent, cittadina dell’Oklahoma, trascorre la giovinezza tra gli USA e il Galles, paese di origine della madre. Si arruola nell’esercito USA ancora giovanissima e viene assegnata in Iraq con la funzione di ufficiale di intelligence.
E se le prime linee mostrano senza filtri l’orrore della guerra, il sangue e il dolore, spesso una posizione come quella di Chelsea mostra invece un’immagine meno cruenta ma forse più crudele. Quella della politica al servizio del conflitto, quella dell’“interesse nazionale” che vale più della vita di una, dieci, cento o mille esseri umani. In questo caso si parla di persone morte - tra le 12 e le 18, di cui 2 giornalisti Reuters - in un attacco condotto da elicotteri AH-64 il 12 luglio del 2007 a Baghdad. Il Pentagono dirà che si è trattato di “un incidente, erano armati e avevano aperto il fuoco!”.
Un massacro immotivato, invece, diranno i video e i rapporti filtrati tramite il portale WikiLeaks, che mostrarono, appunto, un attacco indiscriminato contro civili disarmati, giornalisti, donne e bambini. “Ahah, colpiti!”, dirà un soldato. “Guarda un po’ quegli st*onzi, morti ammazzati!”, gli risponderà un commilitone.
Questi documenti vennero inviati al portale proprio da Chelsea Manning, insieme a dozzine di altri rapporti compromettenti riguardanti l’esercito statunitense e le sue azioni in Iraq e Afghanistan.
La verità costa troppo. Chelsea lo scoprì sulla sua pelle. Lo scoprì quando venne rinchiusa, nel maggio del 2010, in una cella minuscola in Kuwait. Due metri e mezzo per due metri e mezzo. Poi in una prigione militare a Quantico, Virginia, dove subì privazione del sonno e torture fisiche e psicologiche. “Poteva vedere la luce del sole solo per 20 minuti al giorno”.
Fuori dalla sua cella la guerra continua. Non solo quella sul campo, ma anche quella ancora più violenta e devastante dell’amministrazione e del Pentagono contro coloro che provano a diffondere documenti riservati riguardo le guerre di inizio anni Duemila. WikiLeaks, reso ormai celebre dai documenti trasmessi da Chelsea, e il suo fondatore Julian Assange diventano i nemici pubblici numero uno.
Le condizioni di prigionia di Chelsea, nel frattempo, fanno scalpore, così come la sua condanna, nel 2013, a 35 anni di carcere. Verrà assolta solo dall’accusa di “connivenza col il nemico”, per la quale avrebbe potuto anche ricevere la pena capitale.
“Volevo solo che la gente vedesse ciò che avevo potuto vedere io, e far capire a tutti cosa furono quelle guerre”, dirà in seguito. Nel 2017 Barack Obama le concederà la grazia, ma verrà incarcerata nuovamente nel 2018 per essersi rifiutata di presentarsi di fronte al grand jury. Dopo un tentativo di suicidio in carcere, verrà rilasciata una decina di mesi dopo, il 10 marzo del 2020.