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Prigionieri

Il punto della situazione


Nel rapporto dello scorso anno si rilevava come la pandemia avesse avuto implicazioni importanti sulla garanzia e l’effettività del diritto alla libertà personale e alla corretta esecuzione delle misure restrittive, determinando una sorta di convergenza tra emergenza pandemica e la preesistente, cronica emergenza che caratterizza da anni molti dei luoghi di privazione o limitazione della libertà nel nostro ordinamento (carceri, centri di permanenza per rimpatri, ecc..). L’incidenza del virus e delle correlative misure di contenimento è stata, infatti, notevolmente maggiore rispetto ai “prigionieri”, ovvero ai soggetti, per varie ragioni e in vari contesti, sottoposti a misure limitative della libertà personale.

La condizione di promiscuità propria degli istituti penitenziari, ma anche dei centri di permanenza per i rimpatri ha rappresentato, infatti, una delle situazioni a maggiore rischio di trasmissione del virus laddove uno dei soggetti ristretti (o il personale di sorveglianza) lo avesse contratto. Nella popolazione ristretta vi è poi una quota non irrilevante di soggetti con vulnerabilità specifica per condizioni pregresse di marginalità e scarsezza di risorse, oltre che in alcuni casi per abuso di sostanze.

A fronte di una condizione così potenzialmente rischiosa, non è stata colta fino in fondo l’occasione per adottare misure deflattive straordinarie di impatto significativo, anche confermandole, sia pur in parte, per contenere la tendenza al sovraffollamento già in ripresa dopo un periodo di prima, iniziale flessione. Se è, infatti, vero che rispetto agli inizi del 2020 si è registrata una complessiva diminuzione del numero delle presenze in carcere grazie, appunto, ai provvedimenti deflattivi introdotti nella prima fase pandemica (si è, in particolare, passati dagli oltre 61.000 di marzo 2020 ai 53.387 di fine maggio dello stesso anno), è altrettanto vero che il tasso di decremento si è progressivamente ridotto già dalla fine del 2020. Al 30 novembre 2021 il numero dei ristretti (54.593, di cui il 30% in attesa di giudizio definitivo) è risultato inferiore a quello dei soggetti in misura alternativa (67.792)(1). Tuttavia, in particolare a partire dall’estate 2021, con il depotenziamento delle misure deflattive pandemiche il tasso di presenze in carcere ha ripreso a crescere, con un aumento di 310 presenze in soli 28 giorni da metà luglio.

È significativo, in questo senso, l’“accorato appello” rivolto alla ministra della Giustizia, nel febbraio 2021, dai detenuti del carcere di Rebibbia affinché, "discostandosi dall'inerzia del precedente esecutivo si allineasse agli altri Paesi che sono intervenuti con misure urgenti e straordinarie". 

Per altro verso, le immagini diffusesi nei primi mesi dell’anno della repressione violenta delle contestazioni dei detenuti a Santa Maria Capua Vetere hanno dimostrato plasticamente il grado di intollerabilità che può caratterizzare - in condizioni eccezionali quanto si vuole, ma pur sempre verificatesi - la vita in carcere. Quelle immagini non possono certamente, è bene chiarirlo, considerarsi una fotografia di ciò che avviene tutti i giorni nei penitenziari. Eppure esse mostrano, drammaticamente, il grado di insostenibilità e di orrore - sì, non sapremmo come definirlo altrimenti – cui possono giungere le relazioni tra i detenuti e chi (polizia penitenziaria in particolare) dovrebbe invece garantirne l’incolumità e la sicurezza. A dicembre 2021 ha avuto luogo il dibattimento nel processo, a carico di 108 imputati, tra agenti di polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione penitenziaria, per tortura, lesioni, abuso d’autorità, falso in atto pubblico e concorso nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine, morto a pochi giorni dal pestaggio subito in quello stesso aprile 2020. Il gip ha descritto il comportamento degli imputati con l’efficace sintesi di “orribile mattanza” e la ministra della Giustizia ha affermato l’esigenza di un complessivo ripensamento del sistema penitenziario.

Un sia pur timido passo in questa direzione è stato compiuto dalla riforma del processo penale voluta dalla Ministra Cartabia, che ha esteso il novero delle sanzioni non detentive e introdotto misure importanti in tema di giustizia riparativa. Ciononostante, molto ancora resta da fare per garantire non solo la necessaria tutela dei diritti delle persone detenute, ma anche l’effettiva residualità del carcere nell’ambito del sistema sanzionatorio.


La pandemia e la vita "da remoto" in carcere


Di fronte al perdurare dell’emergenza pandemica e alla cessazione dell’efficacia delle norme deflattive adottate a marzo, il d.l. 28 ottobre 2020 n. 137 ha reintrodotto - con vigenza più volte prorogata, da ultimo sino al 31 dicembre 2021 - le due principali misure del decreto cura Italia (detenzione domiciliare per pene detentive brevi e licenza speciale per semiliberi), aggiungendovi ulteriori ipotesi di concessione di permessi premio.

La logica, anche in questo caso, è quella della riduzione della pressione sul sistema penitenziario attraverso la concessione di misure alternative o permessi premio, escludendo comunque i detenuti per reati ostativi o per delitti commessi nel contesto familiare (essendo questo un indice di pericolosità specifica per l’esecuzione della pena in ambito domestico). Si è trattato di misure dall’impatto molto contenuto e, soprattutto, strettamente commisurato alla durata dell’emergenza.

In particolare, la previsione della concedibilità delle licenze premio superiori al limite ordinario dei 45 giorni annui, ai detenuti “semiliberi” ha interessato pochissimi soggetti. Il 15 ottobre 2020 – dunque nel periodo considerato dal Governo ai fini dell’adozione della misura – i detenuti che in Italia scontavano la pena in regime di semilibertà erano solo 760 su oltre 54mila, pari al solo 2,7% del numero complessivo dei soggetti ammessi a misure alternative alla detenzione.

Replicando il modello del d.l. “Cura Italia”, si sono poi ammessi alla detenzione domiciliare i condannati con pene residue inferiori a 18 mesi, purché per reati diversi, in particolare, da quelli ostativi di cui all’art. 4-bis o da quelli connessi a episodi di stalking e violenza intrafamiliare (indice, questo, di incompatibilità con una misura domiciliare).

Si è trattato, anche in questo caso, di misure inadeguate rispetto alla condizione delle carceri, ulteriormente aggravata dalla pandemia.

Secondo i dati del Garante delle persone private della libertà personale, al 13 novembre 2020 infatti le persone registrate come detenute erano 54.767, a fronte di una presenza effettiva di 53.992 e di una capienza regolamentare di 50.570, da cui sottrarre 3-4mila posti inutilizzabili, di modo che l’eccedenza risulta di circa 7.000 persone.



C14. Grafico 1 • Il sovraffollamento negli istituti di pena



Nessuna condizione, più di questa emergenza pandemica, avrebbe potuto insomma motivare una revisione, tanto radicale quanto strutturale (e perciò da acquisire al sistema, a regime e al di là della contingenza del momento) dell’ordinamento penitenziario (e dello stesso sistema penale), fondata su di una visione meno carcero-centrica e meno panpenalista, che sappia scommettere su misure extramurarie, capaci di determinare un graduale reinserimento sociale, pur in forme nuove, dell’autore di reato.

Per altro verso, proprio le misure contenitive del contagio hanno favorito l’ingresso in carcere delle nuove tecnologie, prima quasi inesistenti, con una rapidità senza precedenti. Già con circolare del 21 marzo 2020 il Dap ha richiesto di rendere edotti i detenuti della possibilità di avvalersi di smartphone, acquistati dal Ministero e distribuiti, soprattutto per sostituire i colloqui in carcere con video chiamate. Questo improvviso ingresso del digitale nei penitenziari ha, naturalmente, reso evidente l’esigenza di tutelare la privacy dei detenuti (e dei loro interlocutori). Sono stati, infatti, da più parti segnalati casi nei quali le video-telefonate e i colloqui via Skype delle persone detenute si sono svolti in assenza delle necessarie condizioni minime di riservatezza e, in particolare, in violazione del divieto di controllo auditivo da parte del personale di custodia.

A fronte di questi episodi, con comunicato congiunto del 9 aprile 2021, il Garante per la protezione dei dati personali e il Garante delle persone private della libertà personale hanno  richiamato le Direzioni degli Istituti penitenziari e gli operatori addetti al rispetto di alcune essenziali garanzie per la tutela della riservatezza delle persone detenute che accedono a tale modalità di comunicazione o colloquio. È stato inoltre raccomandato, “fatte salve eventuali misure disposte con provvedimento dell’Autorità giudiziaria, di approntare le postazioni di collegamento in maniera tale da consentire al personale di custodia di controllare visivamente a distanza il colloquio, avvicinandosi allo schermo solo per procedere alle necessarie operazioni di identificazione degli interlocutori, senza tuttavia ascoltare la conversazione”. È stata, peraltro, rappresentata l’esigenza che l’accertamento dell’identità del corrispondente avvenga all’inizio e al termine della conversazione con il tempestivo abbandono dell’ambiente di comunicazione per garantire la riservatezza della conversazione”.

La garanzia della riservatezza in un contesto, quale quello del carcere, che anzitutto per promiscuità e condivisione di spazi sembrerebbe esservi radicalmente incompatibile, è un profilo importante, noto ma reso ancor più rilevante con l’ingresso dei dispositivi tecnologici in carcere. Anche sulla base di questa urgenza, a maggio 2021 il Garante per la protezione dei dati personali e il Garante per le persone private della libertà hanno sottoscritto un protocollo d’intenti volto a rafforzare le garanzie di riservatezza in carcere, migliorando complessivamente lo standard di tutela dei diritti dei detenuti.


I detenuti con patologie psichiatriche


Nelle precedenti edizioni si è dato conto della difficoltà incontrate nella piena attuazione della riforma che nel 2012 ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari, sostituendoli con le Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza (Rems) a carattere prevalentemente sanitario. I plurimi rinvii dell’effettiva attuazione della riforma (fino al 2017) e, dunque, il ritardo nella sua applicazione, unitamente alla scarsità delle risorse nella disponibilità delle Regioni (cui spetta l’adozione di buona parte delle misure attuative, vertenti in materia sanitaria) ne hanno infatti depotenziato l’impatto. Il numero delle Rems (32 in 16 regioni) e gli stessi posti disponibili in ciascuna di esse (concepite come strutture piccole, con non più di venti ricoverati) ha, così, determinato lunghe liste d’attesa di detenuti (o liberi, eventualmente soggetti a libertà vigilata) cui il giudice abbia applicato la misura del ricovero per infermità o seminfermità mentale, congiunta a pericolosità sociale.


C14. Grafico 2 • Detenuti in terapia psichiatrica, da un'indagine dell' Associazione Antigone (2019) 


In entrambi i casi, si determina una condizione paradossale nella sua illegittimità: tanto per il detenuto, costretto a una prosecuzione della misura carceraria sine titulo e per mera indisponibilità di posti nelle strutture cui sarebbe destinato, sia per il soggetto libero, privato in tal modo del diritto a essere curato, a beneficio oltretutto della società tutta. Della questione di legittimità costituzionale di questa disciplina è stata investita la Consulta, che a tal fine ha valutato anche (come si evince dalle richieste avanzate alle amministrazioni coinvolte) i profili attuativi e applicativi della legge, per comprendere il grado di effettività dei diritti lì sanciti (anche alla luce dei rilievi della Corte EDU sulla sistematicità della violazione dei diritti dei detenuti affetti da disagio psichico).

Con ord. 22 del 2022, la Corte pur con una pronuncia d’inammissibilità ha rivolto un monito al legislatore, sottolineando l’ “urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati [ovvero garantendo l’effettività della tutela dell’ “intero fascio di diritti fondamentali che l’assegnazione a una REMS mira a tutelare]; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure); forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture o degli strumenti alternativi” (punto 6 del “Considerato in diritto”).


L’ergastolo


Un monito importante circa l’esigenza di garantire l’effettiva funzione rieducativa della pena è stato rivolto anche dalla Corte costituzionale (ord. 11 maggio 2021, n. 97) al Parlamento, con riferimento specifico all’ergastolo ostativo. Benché si tratti di una sentenza-monito o di incostituzionalità prospettata (con cui cioè la Corte, consapevole delle implicazioni in termini di discrezionalità legislativa connesse alla sua valutazione, non costituzionalmente vincolata nei contenuti, rinvia la trattazione della questione per consentire al legislatore di riformare la materia, contemperando i vari interessi in gioco), essa afferma chiaramente come un ergastolo senza speranza di fine (per esclusione della liberazione condizionale) quale quello ostativo “è in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e con l’art. 3 della CEDU”. Contrasto che, dal punto di vista del condannato, appare come privazione della sua “stessa possibilità di sperare nella fine della pena”.

L’argomento principale sotteso alla sentenza si riflette sull’intero sistema penale: non sono compatibili con la Costituzione - né con i principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti umani - pene fondate sulla mera incapacitazione, inidonee ad assolvere realmente a funzioni di risocializzazione, tali peraltro da escludere l’individualizzazione del trattamento e la valutazione del percorso compiuto dal condannato. Osserva infatti la Corte come la “presunzione di pericolosità gravante sul condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di ‘contesto mafioso’, che non abbia collaborato con la giustizia, deve poter essere superata anche in base a fattori diversi dalla collaborazione e indicativi del percorso di risocializzazione dell’interessato”. La magistratura di sorveglianza deve, infatti, poter “valutare – dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto (...) – l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.”.

La Corte, del resto, aveva chiarito sin dalla sentenza 204/1974 che “sorge il diritto per il condannato a che, verificatesi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto al suo fine rieducativo” e che nasce, di pari passo, la necessità che tale diritto trovi “una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale”. Flessibilità nell’esecuzione e valutazione individualizzata del condannato da parte della magistratura di sorveglianza sono, infatti, due delle principali espressioni del finalismo rieducativo della pena.

Lo ha ben chiarito la sentenza 149 del 21 giugno 2018, con cui la Corte costituzionale ha osservato che “la particolare gravità del reato commesso” ovvero “l’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti delle generalità dei consociati […] nemmeno [può], nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società (sentenza 450 del 1998), e da declinarsi nella fase esecutiva come necessità di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco dell’espiazione della pena”.

Si tratta, in altre parole, di non privare nessuno, neppure i condannati per i reati peggiori, di quell’“incomprimibile possibilità di recupero” in cui - secondo le parole del cardinale Carlo Maria Martini - si esprime la dignità umana.

Non si tratta, peraltro, di casi marginali: su 1.779 ergastolani, a giugno 2021, gli ostativi nelle nostre carceri erano 1.259, ovvero quasi il 71%, presumibilmente tutti destinati a morire in stato di detenzione. Del resto, la liberazione condizionale risulta essere stata concessa a un ergastolano (non ostativo) nel 2019, a quattro nel 2020, a nessuno nei primi sei mesi del 2021.


La riforma Cartabia


Come già accennato, nel 2021 il numero di persone sottoposte a misure non carcerarie ha superato quello relativo ai detenuti. Nell’ambito della prima quota, poco meno della metà (30.591 persone) è in misura alternativa: affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà. In 18.612 casi si tratta di affidamenti in prova, per condanne a pene inferiori ai quattro anni; in 6.881 casi la prima parte dell’esecuzione della pena è avvenuta in carcere o ai domiciliari e i residui quattro anni sono stati scontati fuori. Si tratta di condanne per reati contro il patrimonio (29 per cento) e contro l’incolumità pubblica (16,3 per cento); solo l’8,3 per cento è relativo a delitti contro la persona, e ancor meno (3,8 per cento) contro la famiglia, la pubblica morale e il buon costume. Solo il 16 per cento dei soggetti in misura alternativa sono cittadini stranieri, che invece rappresentano più del 30 per cento delle presenze in carcere, a dimostrazione della difficoltà per questa quota della popolazione di accedere a misure non carcerarie. Rilevante anche la quota di soggetti ammessi alla prova (circa 23.888), imputati per reati di non rilevante offensività, estinti in caso di esito positivo del probation.



C14. Grafico 3 • Serie storica delle presenze in carcere - Estratto di grafico dal rapporto dell'Associazione Antigone



Tale misura ha incontrato un rilevante incremento negli ultimi anni, passando dai 511 del 2014 ai 23.492 nel 2017 fino ai 34.931 nel 2020, per la metà relativi ad infraquarantenni (per una buona parte imputati per violazioni del codice della strada(2)).

Nella prospettiva della deflazione della popolazione detenuta e dell’arricchimento del ventaglio delle misure sanzionatorie diverse dal carcere, innovazioni significative sono apportate dalla riforma Cartabia (l. 134/2021). Essa anzitutto estende l’ambito di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati puniti con pena edittale non superiore nel minimo a due anni, salvo preclusioni per titolo di reato. Si delega, peraltro, il Governo a estendere a specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, l’ambito applicativo dell’istituto della sospensione del procedimento penale, con messa alla prova dell’imputato che intraprenda percorsi di carattere risocializzante o riparatorio, da parte dell’autore. Il Governo è, peraltro, delegato a prevedere una causa di estinzione delle contravvenzioni (dunque dei reati minori) derivante dall’adempimento tempestivo di prescrizioni specifiche e dal pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell’ammenda prevista per la contravvenzione, con possibilità di prestazione di lavoro di pubblica utilità in alternativa all’adempimento pecuniario e di attenuazione della pena in caso di adempimento tardivo.

Inoltre, la riforma delega il Governo ad ampliare gli istituti sospensivi o sostitutivi della pena detentiva in fase di cognizione e introduce una disciplina organica della giustizia riparativa.

Sotto il primo profilo, pur non introducendo (anche se previsto dalla delega Orlando, non attuata come invece sarebbe stato auspicabile) pene principali non carcerarie, si ammette la sostituzione di pene in concreto commisurate dal giudice sino a quattro anni (più elevato dunque del limite di tre anni previsto per l’affidamento in prova), comprendendo dunque un novero di reati sufficientemente ampio.

Da un lato, la riforma elimina la semidetenzione e la libertà controllata, che hanno sinora avuto un’applicazione assai ridotta (al 15 aprile 2021 la prima riguardava solo due persone e la seconda 104, a fronte delle oltre 64.000 persone in esecuzione di misure alternative, altrimenti dette di comunità).

Dall’altro lato, la riforma prevede come sanzioni sostitutive del carcere la detenzione domiciliare, la semilibertà (queste anche per reati puniti con pene da tre a quattro anni), il lavoro di pubblica utilità (che presuppone l’assenso o, meglio, la “non opposizione” del condannato) e la pena pecuniaria. Non è stato invece incluso nella categoria l’affidamento in prova al servizio sociale, pur proposto dalla Commissione Lattanzi incaricata dalla Ministra di delineare i tratti essenziali della riforma.

La concessione della misura (insuscettibile di sospensione condizionale) presuppone una valutazione giudiziale positiva sull’idoneità rieducativa, ma anche special-preventiva (rispetto cioè al rischio di commissione di ulteriori reati) della misura. Essa può essere anche arricchita di contenuti (prescrizioni) idonei a valorizzare ulteriormente la funzione di reinserimento sociale della pena. Inoltre, le sanzioni sostitutive sono applicabili più di una volta (sia ai recidivi sia a chi ne abbia già beneficiato), anche in seguito a conversione di altra, più lieve, misura revocata per mancata esecuzione o inosservanza grave e reiterata delle prescrizioni accessorie.

È significativo, del resto, l’intervento sulla pena pecuniaria, la cui disciplina (sul modello delle quote giornaliere) si è dal 2009 connotata in senso censitario, essendo allora stato, il valore della quota, portato in una forbice oscillante tra 250 e 2.500 euro, con una soglia minima irraggiungibile per i meno abbienti. La pena pecuniaria (che ben potrebbe svolgere, in astratto, un’efficace funzione sostitutiva del carcere) è, così, divenuta una sanzione accessibile solo ai benestanti.

È significativo che la Corte costituzionale, con la sentenza 11 febbraio 2020, n. 15, abbia espresso l’auspicio in favore di un intervento legislativo per "restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali, farraginosi meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale. E ciò nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei".

Per questo, la riforma Cartabia delega al Governo la previsione di una quota minima tale da evitare che la sostituzione della pena detentiva “risulti eccessivamente onerosa in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare”. In tal modo il sistema delle quote giornaliere, sufficientemente perequativo, avrebbe anche potuto essere esteso – come peraltro proposto dalla Commissione Lattanzi – alla sanzione pecuniaria irrogata come pena principale (e non sostitutiva), che invece la riforma Cartabia ha mantenuto ancorato al solo modello della somma complessiva, solo apparentemente modulato sulla capacità patrimoniale del soggetto (per effetto della scarsa applicazione dell’art. 133 bis c.p., che consente di modulare tra un terzo e il triplo la pena come calcolata, in ragione delle condizioni economiche del soggetto).

Particolarmente importante anche la delega, contenuta nella riforma, per la disciplina organica della giustizia riparativa, in conformità alla direttiva 2012/29/UE, che vi riconduce “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale”, sottolineandone l’utilità tanto per le vittime quanto per gli autori di reato. L’accesso ai programmi di giustizia riparativa è concepito come particolarmente ampio, possibile in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità, previo consenso libero e informato della vittima e dell’autore del reato e della positiva valutazione, da parte dell’autorità giudiziaria, dell’utilità del programma.

Esso presuppone l’informazione alla vittima e all’autore del reato in ordine ai servizi di giustizia riparativa disponibili; il diritto all’assistenza linguistica; la rispondenza all’interesse della vittima, dell’autore del reato e della comunità; la ritrattabilità del consenso; la confidenzialità delle dichiarazioni rese nell’ambito del programma, salvo vi sia il consenso delle parti o l’indispensabilità della divulgazione per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e salvo che le dichiarazioni integrino di per sé reato.

Si dispone inoltre – al fine di favorire l’effettivo dialogo tra le parti – l’inutilizzabilità, nel procedimento penale e in fase esecutiva, delle dichiarazioni rese nell’ambito del programma e l’improduttività di effetti negativi nei confronti della vittima o dell’autore del reato, nel procedimento penale o in sede esecutiva, di un esito di non fattibilità di un programma di giustizia riparativa o di un suo fallimento.


I cittadini stranieri 


La condizione di detenzione, pur amministrativa, dei cittadini stranieri sta rivelando ulteriormente tutta la sua inadeguatezza alla luce dei dati sull’effettività dei rimpatri: unico scopo cui è finalizzato il trattenimento nei centri. Nel 2021 - come ha documentato il Garante delle persone private della libertà personale – risulta infatti che solo il 49,7% dei migranti trattenuti nei centri per il rimpatrio sia stato effettivamente rimpatriato.


C14. Grafico 4 /A • Percentuale di migranti effettivamente rimpatriati tra quelli trattenuti nei centri per il rimpatrio


La tendenza si allinea peraltro a quella degli anni precedenti (48,7% nel 2019 e 50,88% nel 2020). Le cause più rilevanti di mancato rimpatrio sono: la mancata identificazione del soggetto alla scadenza del termine di trattenimento (nel 16, 62% dei casi), la mancata convalida del trattenimento (nel 15,64%), a fronte della assoluta marginalità dell’allontanamento arbitrario (1,14% dei casi) o dell’arresto all’interno dei centri stessi (1,11% ).


C14. Grafico 4 /B • Le cause più rilevanti di mancato rimpatrio


È evidente che la limitazione della libertà personale di un soggetto cui non sia ascritta nessuna responsabilità penale, finalizzata soltanto a un rimpatrio che viene effettivamente eseguito solo nella metà dei casi, risulta ancor meno accettabile proprio perché, appunto, fine a se stessa.

Non risultano superate neppure le criticità che hanno caratterizzato la soluzione delle navi quarantena, già illustrate nella scorsa edizione del rapporto. Benché limitato all’inizio dell’anno nel suo ambito applicativo ai soli migranti effettivamente giunti sul territorio nazionale e non a chi vi soggiornasse già precedentemente, il trasferimento coattivo su navi quarantena” di migranti effetto del solo dato della positività al virus, sulla base di un mero atto amministrativo generale, suscita diverse perplessità.

Esso rappresenta infatti un caso grave di limitazione della libertà personale in forme e modi non legislativamente previsti, suscettibile di rilevare anche in termini di discriminazione essendo una misura di sorveglianza sanitaria rivolta ai soli stranieri.

Inchieste giornalistiche hanno peraltro dimostrato come il trattenimento superi di media, e di molto, la durata bisettimanale prevista in generale per l’isolamento, potendo giungere sino a 40 o 50 giorni (Micromega.it).

Rispetto ai minori stranieri non accompagnati che sono stati in una prima fase anch’essi trattenuti nelle navi quarantena, si è peraltro dovuto attendere l’intervento giurisdizionale per chiarire la necessità di segnalare alla Procura Minorile la presenza di minori per la nomina di un tutore “senza attendere la conclusione della quarantena”.

È dunque quanto mai necessario superare questo tipo di misura di sorveglianza sanitaria ed evitare che si normalizzi ciò che non poteva essere che emergenziale, ancora un volta ai danni dei cittadini stranieri.

Note


(1) - G. BIANCONI, La svolta delle carceri, in Corriere della sera, 12.12.21, p. 22.

(2) - G. BIANCONI, cit.

Andrea Cirino e Claudio Renne

Andrea Cirino e Claudio Renne

(Torino, 1978 - ) (Novara, 1975 - Torino, 2017)
QUANTO VALGONO I DIRITTI DEI DETENUTI? ANDREA E CLAUDIO VENNERO LETTERALMENTE TORTURATI DOPO UN ALTERCO CON UN AGENTE DI POLIZIA PENITENZIARIA: FURONO COSTRETTI A STARE SENZA VESTITI A DICEMBRE, SENZA CIBO NÉ ACQUA, PRIVATI DEL SONNO E PESTATI A SANGUE

Quanto valgono la vita e la dignità di un detenuto? Molto poco, specie se, di fronte ad evidenti casi di torture e maltrattamenti, le vittime non possono o non riescono a ottenere giustizia. La storia di Andrea Cirino e Claudio Renne è, a riguardo, a dir poco emblematica. Nel dicembre del 2004 erano entrambi detenuti nel carcere di Asti per reati contro il patrimonio. Era il 10 di quel mese quando Andrea Cirino ebbe un diverbio con uno degli agenti per un motivo non particolarmente grave; fatto sta che che iniziò un litigio nel quale interviene anche Claudio Renne per difendere Cirino. Lo scontro venne presto sedato e la vicenda sembrò terminare lì. Ma in carcere può non funzionare così. Il carcere di Asti non aveva una sezione di massima sicurezza, ma erano comunque disponibili delle celle non attrezzate in un’area separata. Venivano utilizzate come “celle lisce”, celle completamente vuote dove si pestavano più o meno regolarmente i detenuti. Fu questa la sorte toccata ad Andrea e Claudio. Vennero trascinati malamente in due celle lisce e lì vennero innanzitutto riempiti di botte. Ma calci, schiaffi e pugni furono solo l’inizio. Era dicembre, come dicevamo, e le temperature non erano esattamente miti. Quasi completamente senza vestiti, i due detenuti vennero lasciati nelle celle - sprovviste anche di letto e coperta - con le finestre aperte. Venne data loro la minima quantità di acqua necessaria alla sopravvivenza e quasi niente cibo. Veniva loro impedito di dormire, con gli agenti di turno che facevano in modo di tenerli svegli con urla e insulti. Diverse volte al giorno, poi, le “visite” dei poliziotti penitenziari e le botte e i calci in faccia. Finché, un giorno, Andrea Cirino si sveglia in ospedale con il collo completamente viola. “Tentato suicidio”. Peccato che non ricordasse nulla di quella sera - tranne un piatto di pasta “sospetto” consegnatogli dagli agenti - e non avesse a disposizione nulla nella cella con cui avrebbe potuto impiccarsi.

Questa vicenda non è un caso isolato. Moltissime, la maggior parte forse, non vengono neanche denunciate dalle stesse vittime. Oppure finiscono nel dimenticatoio, per un motivo o per un altro, principalmente perché la parola e la denuncia di un detenuto vale molto poco. Sarebbe stato il destino anche di questa storia se un’intercettazione partita per motivi completamente estranei (un’indagine su un traffico di droga interno al carcere nel quale erano coinvolti alcuni agenti) non avesse rivelato la “prassi” delle violenze contro i detenuti, compreso il caso di Claudio e Andrea. Ma ai tempi del primo processo il reato di tortura non era presente nell’ordinamento italiano: da qui il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nel 2017, stabilisce come i due detenuti avessero subito vere e proprie tortura nel carcere di Asti, ammonendo l’Italia e costringendola a risarcire Andrea e Claudio. Il risarcimento di quest’ultimo andrà alla figlia: Claudio morì ad inizio 2017, senza vedersi riconosciuta non tanto la somma pecuniaria, quanto piuttosto il diritto alla dignità e al rispetto.