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Libertà di espressione e di informazione

Lo stato dell’arte


Molte le questioni sorte nell’anno 2021 con riguardo alla libertà di manifestazione del pensiero che, pur nella sua funzione di pietra angolare di democraticità dell’ordinamento, va bilanciata con altri diritti e libertà fondamentali.

Libertà di stampa: la posizione dell’Italia in classifica


Purtroppo, la libertà di espressione e di informazione, declinata nella forma di libertà di stampa non raggiunge, nell’anno 2021, risultati confortanti. Sulla base della classifica annuale che misura il tasso di libertà di ogni Stato, focalizzandosi sul pluralismo informativo, sull’indipendenza dei media, sulla trasparenza e sulle infrastrutture, l’Italia si trova, anche quest’anno come lo scorso, al 41º posto, ben lontana dalla posizione dei principali Stati europei e persino di diversi Paesi extraeuropei.



C1. Grafico 1 • Estratto UE/Balcani della classifica mondiale per la libertà di stampa nel 2021





Novità in tema di pene detentive per la diffamazione a mezzo stampa


Interessante, nell’anno 2021, l’evoluzione del quadro normativo previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Il regime giuridico delle pene per siffatto reato viene sostanzialmente modificato tramite l’intervento della Corte costituzionale, con sentenza n. 150 del 2021.

Come noto, nel 2020, la Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, nella parte in cui tale disposizione prevedeva che, nel caso di diffamazione commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena fosse la reclusione da uno a sei anni e la multa non inferiore a 258 euro. Veniva sollevata questione di legittimità costituzionale ritenendo eccessivo e sproporzionato l’inasprimento sanzionatorio di tale aggravante, a causa dell’applicazione cumulativa di pena detentiva e pecuniaria. La Corte, con ordinanza n. 132 del 2020, affermava che il sistema sanzionatorio fosse ormai «inadeguato» e invitava il legislatore a intervenire, rimodulando il bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi, anche a fronte degli «effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in Internet».

Decorso infruttuosamente il tempo, senza che il legislatore abbia provveduto, la Corte è intervenuta con sentenza n. 150 del 2021, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948. È proprio la previsione in via cumulativa delle due pene, detentiva e pecuniaria, a prescindere dalla gravità dell’offesa, a essere in contrasto con la Costituzione e, in particolare, con la libertà di manifestazione del pensiero, nella sua specifica declinazione della libertà di stampa, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione e dall'articolo 10 della CEDU.

La questione di legittimità costituzionale sollevata invece con riguardo all’art. 595, comma 3, c.p. è stata dichiarata infondata, a fronte del regime di alternatività tra le due pene, detentiva e pecuniaria, da esso previsto.

È possibile ma non necessaria l’irrogazione della pena detentiva.

È per tale ragione che la disposizione censurata si presta a una lettura costituzionalmente conforme. È il giudice che deve bilanciare la libertà di espressione con la tutela della reputazione individuale. A tal proposito, la Corte ha ricordato la “pericolosità” della parola, posto che aggressioni illegittime alla reputazione, soprattutto attraverso i media, «possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E, tali danni, sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili, per chiunque, anche a distanza, di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima».

In questa prospettiva, non è escluso, dunque, che il giudice possa infliggere la pena detentiva. Anzi. Rispetto alla situazione precedente l’intervento della Corte, sembra addirittura che si possa, quasi paradossalmente, ricorrere alla pena detentiva in più occasioni. L’eccezionale gravità della diffamazione che legittima l’irrogazione di siffatta pena può verificarsi, infatti, secondo la Corte, non solo nei casi solitamente indicati dalla Corte di Strasburgo, ovvero istigazione alla violenza e discorsi d’odio, ma anche con riguardo a eventuali «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi».

Esclusa dunque l’applicazione cumulativa di pena pecuniaria e detentiva e circoscritta comunque la possibilità di ricorrere a quest’ultima come extrema ratio, la Corte auspica un intervento del legislatore che possa disciplinare in modo più compiuto e organico il complesso e sempre più pericoloso bilanciamento tra libertà di espressione e diritti individuali.


Il confine tra informazione e veridicità della notizia, ai tempi della pandemia


Si è molto discusso nel corso dell’anno 2021 sulle ricadute, in termini civilistici e penalistici, della diffusione di fake news sulla pandemia da Covid-19.

Non è sempre agevole, come sappiamo, riconoscere la falsità della notizia. Tuttavia, nel caso della pandemia alcune informazioni sono apparse palesemente infondate e irragionevoli.

Sul tipo di notizie, la panoramica è variegata. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alle seguenti: «il coronavirus non esiste, è solo un raffreddore, curabile con le erbe»; «il vaccino contiene microchip ed è uno strumento di sterminio programmato»; «la pandemia è un complotto tra poteri»; «il green pass serve per instaurare la dittatura sanitaria».

La diffusione e la propagazione di tali notizie è facilissima e rapidissima. È sufficiente condividere un post sui social o inviare un messaggio in una delle molte chat di gruppo.

Ma quali sono le conseguenze di una tale condotta?

Diverse le ipotesi, a fronte di una pressoché totale assenza di giurisprudenza sul punto.

Sul piano civile, si potrebbe ricorrere all’art. 2043 c.c., nella parte in cui prevede, come noto, che «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». In tal caso, la diffusione della notizia potrebbe essere qualificata come fatto illecito e occorrerebbe dimostrare il nesso di causalità tra la condotta e il danno ingiusto che ne deriva.

Sul piano penale, l’art. 656 c.p. prevede che «chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309».

Importante in tale contesto, dunque, il bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e ordine pubblico. L’esercizio della prima non può spingersi fino a turbare il secondo. Come in più occasioni affermato dalla Corte costituzionale, la libertà di manifestazione del pensiero incontra infatti «un limite nell’esigenza di prevenire o far cessare turbamenti dell’ordine pubblico» (sentt. nn. 1 del 1956, 33, 120, 121 del 1957), rappresentando quest’ultimo «patrimonio dell’intera comunità» (sent. n. 19 del 1962).

Una notizia è falsa quando risulta contraria a una verità acclarata. Ora, è vero che il sapere scientifico non rappresenta alcuna verità assoluta, ma è indubbio che affermare la pericolosità dei vaccini per la salute umana non trova fondamento in alcuno studio scientifico.

Una notizia è esagerata quando viene manipolata, distorta, enfatizzata. Divulgare la notizia del decesso di una persona a seguito della vaccinazione anti-Covid, senza che tale correlazione sia scientificamente provata, è indubbiamente esagerato.

Una notizia è tendenziosa quando viene strumentalizzata al solo fine di colpire l’opinione pubblica. Si attaglia perfettamente a tale qualificazione la notizia in base alla quale le misure prese durante l’emergenza - prima il lockdown, poi la quarantena - sono state adottate in mancanza di alcuna reale necessità, ma solo per controllare arbitrariamente la popolazione italiana.

Posto che tale reato può essere commesso da chiunque, non soltanto da giornalisti, si perfeziona con la sola diffusione della notizia, essendo un reato di mera condotta, e presuppone un possibile turbamento dell’ordine pubblico, non essendo necessario che esso venga effettivamente alterato, ben si potrebbe ricorrere a tale fattispecie penalistica, con riguardo alle molteplici fake news sulla pandemia.

In tale contesto, si segnala che il 26 maggio 2021, l’Unione europea ha pubblicato un nuovo documento – dopo il Codice di condotta del 2018 – dal titolo “Orientamenti della Commissione europea sul rafforzamento del codice di buone pratiche sulla disinformazione” con lo scopo di ridurre la c.d. infodemia, ovvero la rapida diffusione di informazioni false, esagerate o tendenziose sulla pandemia.


Libertà di espressione e potere “sanzionatorio” dei social network


Sul confine tra libertà di manifestazione del pensiero e potere “sanzionatorio” dei social network si è espressa, nell’anno in corso, la Corte di appello dell’Aquila con sentenza 9 novembre 2021, n. 1659.

Come noto, i gestori dei social network hanno predisposto delle proprie linee guida, in base alle quali valutare l’ammissibilità o meno dei contenuti inseriti dagli utenti sulle piattaforme.

Fuori dalle ipotesi in cui l’eventuale manifestazione del pensiero integri fattispecie criminose, rispetto alle quali opera la disciplina penale, i gestori dei social sanzionano, con la rimozione del commento postato o limitando all’utente l’utilizzo del social stesso per un periodo di tempo, eventuali contenuti contrastanti con siffatte linee guida.

Si è a lungo discusso sulla legittimità di tale sanzione e sull’ambito operativo della stessa. Fino a che punto il gestore può limitare la libertà di manifestazione del pensiero dell’utente e a quali condizioni quest’ultimo può ottenere una tutela giudiziale avverso la condotta sanzionatoria del gestore?

In tale contesto, si inserisce il caso risolto dalla Corte di Appello dell’Aquila.

In primo grado, il Tribunale di Chieti accoglieva il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. sollevato da un utente di Facebook che aveva chiesto di condannare quest’ultimo al risarcimento di 15mila euro, a titolo di danno non patrimoniale, a fronte della lamentata violazione della libertà di manifestazione del pensiero. Tra il 2018 e il 2019 Facebook aveva rimosso dei contenuti postati dal ricorrente perché lesivi delle linee guida dei social. Si trattava di fotografie di Benito Mussolini, con annesse didascalie «W Mussolini» e di immagini della bandiera della Repubblica sociale italiana. Il ricorrente era stato inoltre sanzionato con la sospensione dell’account per 30 giorni a causa della pubblicazione di un commento nei confronti di una terza persona lesivo della dignità e quindi considerato una forma di cyberbullismo.

Il Tribunale ha accolto integralmente la domanda dell’attore.

In secondo grado, invece, la Corte ha dichiarato l’appello proposto da Facebook parzialmente fondato.

La valutazione circa la legittimità o meno della condotta sanzionatoria imposta dai gestori dei social network va esaminata, secondo la Corte, alla luce del rapporto sinallagmatico che intercorre tra Facebook e l’utente. Tra le parti opera una regolamentazione contrattuale in base alla quale l’utente aveva accettato, tra le altre, anche le clausole relative ai poteri sanzionatori del gestore del social, a fronte di comportamenti lesivi delle linee guida indicati dalla piattaforma e poste «a salvaguardia del sinallagma contrattuale, cioè dell’equilibrio tra la possibilità per l’utente di esprimersi e condividere contenuti ritenuti importanti e il pregiudizio che determinate modalità espressive o determinati contenuti possano arrecare alla sicurezza e al benessere altrui o all’integrità della stessa community». Secondo la Corte, inoltre, «la violazione dei criteri di equilibrio sopra descritti, che sono sostanzialmente regole di convivenza civile, ben può dunque essere valutata alla stregua di un inadempimento contrattuale che, ove esistente, abilita la controparte a sospendere la propria prestazione, rimuovendo o bloccando i contenuti che violino tali disposizioni contrattuali».

Attraverso la lente della natura sinallagmatica della prestazione contrattuale, la Corte ha considerato legittima la sospensione dell’account per la pubblicazione di commenti espressivi di cyberbullismo e illegittima, invece, la rimozione dei contenuti ritenuti di natura fascista. Secondo la Corte, infatti, si tratta, con riguardo a queste ultime, di «mere espressioni di pensiero» che rispondono alla principale funzione Facebook, ovvero «di consentire agli utenti di esprimersi e condividere contenuti per loro importanti». Non integra la fattispecie in esame un comportamento fattivo di pericolo di ricostituzione del partito fascista che, come noto, è vietato sulla base della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione, ma rappresenta una manifestazione di opinione fine a sé stessa.



C1. Grafico 3 • Bullismo e Cyber bullismo, dati dell'osservatorio indifesa 2021: Qual è la minaccia maggiore per un/una ragazzo/a della tua età?



Il diritto all’oblio nella Legge 27 settembre 2021, n. 134


La legge delega 27 settembre 2021, n. 134 ha introdotto un principio fondamentale, disponendo che «il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all'oblio degli indagati o imputati».

Sappiamo bene che prima di tale legge il diritto alla deindicizzazione poteva essere soddisfatto solo tramite domanda rivolta al motore di ricerca e, nel caso fosse da questo respinta, tramite richiesta all’Autorità garante per la protezione dei Dati personali o all’autorità giudiziaria. L’esito di siffatta richiesta dipendeva poi, caso per caso, dal bilanciamento effettuato tra diritto all’oblio e diritto di cronaca.

Come in più occasioni precisato dalla giurisprudenza, infatti, la domanda di deindicizzazione non può essere accolta qualora prevalgano esigenze di pubblico interesse alla permanenza della notizia in rete, tra le quali, esigenze di giustizia, di polizia, di tutela dei diritti, esigenze scientifiche, didattiche o culturali (Corte di Cassazione, 20 marzo 2018, n. 6919). In mancanza di tali condizioni, il diritto all’oblio garantisce al richiedente la deindicizzazione della notizia che offre una rappresentazione non più attuale della realtà (Corte di Cassazione, 19 maggio 2020, n. 9147).

Con tale legge - anche nota come Riforma Cartabia - invece, l’imputato assolto dalle accuse o il cui processo si è concluso con una sentenza di non luogo a procedere o con un decreto di archiviazione, disporrà immediatamente di un titolo per ottenere la deindicizzazione della notizia.

Per avere maggiore chiarezza sulla modalità di esercizio di tale diritto, nonché sulla portata territoriale dell’eventuale deindicizzazione, occorrerà, tuttavia, attendere l’esercizio governativo della delega.




Giuseppe Scalarini

Giuseppe Scalarini

(Mantova 1873 - Milano 1948)
LA STORIA DI GIUSEPPE SCALARINI, IL VIGNETTISTA ODIATO DA MUSSOLINI

Mussolini lo aveva sempre odiato. 

Fin da quando, nel novembre del 1914, lo aveva disegnato nella vignetta “Giuda” dove il futuro duce, armato di pugnale e con in mano i trenta denari, si avvicinava alle spalle di Cristo (il Socialismo) per pugnalarlo alle spalle.

Eppure quella vignetta di Giuseppe Scalarini, oltre ad essere straordinaria sul piano artistico, era assolutamente veritiera. Mussolini, infatti, per fondare il Popolo d’Italia aveva ricevuto ingenti somme da vari imprenditori genovesi e milanesi.

Ma, come in altre occasioni, al padre del fascismo la verità non stava per nulla simpatica. E così quella vignetta di Scalarini se la legò al dito e diversi anni dopo gliela fece pagare. Nel novembre del 1926 Giuseppe venne infatti picchiato selvaggiamente a Milano da un squadraccia di camicie nere. Ne uscì con la mandibola fratturata e con una commozione cerebrale. Dopo un breve periodo in ospedale venne arrestato e condannato dal Tribunale speciale al confino, dove resterà fino al 1929. Tornato a Milano diventerà un sorvegliato speciale, e il regime gli impedirà di firmare qualsiasi opera realizzata.

E dire che Scalarini aveva anche una firma speciale, una specie di rebus, essendo composta dal disegno di una scala e dal suffisso rini. Aveva iniziato ad usarla presto, come presto aveva iniziato a disegnare. Nato a Mantova nel 1873, a sedici anni si diploma alle scuole tecniche e dimostra una grande passione per il disegno che lo porterà, pochi anni dopo, a realizzare la sua prima mostra e a trasferirsi prima a Parigi e poi a Venezia.

Di chiare idee socialiste, la sua crescita artistica andrà di pari passo con quella politica. Finì in breve tempo registrato nei casellari della polizia come “frequentatore di affiliati a partiti sovversivi”, sarà condannato per reati contro lo Stato a causa dei suoi disegni antimilitaristi, tema che accompagnerà tutta la sua produzione e che lo porterà a realizzare vignette per L’Avanti, dove la sua firma compare per la prima volta il 22 ottobre 1911, durante la guerra di Libia. Una collaborazione ricchissima, migliaia di vignette, interrotta solo nel 1926 a causa delle leggi speciali.

L’inutilità della guerra, lo sfruttamento degli ultimi, la violenza fascista, la complicità della monarchia e dei capitalisti nella nascita del regime sono tutti temi che tratta fino a quando non viene arrestato, rischiando più volte la vita, essendo destinatario di varie spedizioni punitive.

Dopo il confino verrà nuovamente arrestato nel '40 e internato nel campo di concentramento di Vasto. Tornato in libertà, dopo l’8 settembre sfugge miracolosamente alla polizia di Salò.

Morirà a Milano il 30 dicembre 1948, dopo aver realizzato una vasta e straordinaria produzione artistica.