Il 2023 e il 2024
A scorrere l’infilata di norme che tutelano il diritto alla salute, potrebbe insinuarsi l’illusione di un mondo quasi idilliaco. «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», recita l’art. 32 della Costituzione. Ci sono però voluti 30 anni per istituire il Servizio Sanitario Nazionale (l. 833/78) e quei diritti formali, riconosciuti innanzitutto dalla Costituzione, tardano a diventare sostanziali, cioè concretamente accessibili per molti. La platea degli esclusi, anziché ridursi, aumenta. La schiera è composta in particolare da anziani, minori e stranieri, accomunati dalla povertà. Il diritto alla salute rimane, spesso e volentieri, solo sulla carta per quanti già sono in condizione di grave deprivazione materiale e sociale, il 4.7% della popolazione, o a rischio di povertà o esclusione sociale (22.8%)(1). Per gli stranieri irregolari, circa 458.000, l’accesso alle cure è ancor più difficile: gli ostacoli inseriti dalle norme (il c.d. Decreto Cutro, dl 20/2023), non fanno che aggiungersi ai rischi possibili di un’uscita dalla totale clandestinità, seppure per ragioni mediche. L’ignoranza conclamata sulle condizioni della loro salute non può che riverberarsi in esiti peggiori, quando l’accesso alle cure è infine possibile, rispetto a quanto sperimentato da italiani o stranieri regolarmente residenti.
L’andamento della spesa sostenuta direttamente dalle famiglie (OOP, Out of Pocket) conferma l’accesso ineguale al diritto alla salute: si allarga il divario Nord-Sud e aumenta il numero di coloro che rinunciano alle cure mediche(2). I dati raccolti dal Sistema TS (Tessera Sanitaria) – utili per la dichiarazione dei redditi e che quindi escludono, ad esempio, i para-farmaci come gli integratori – rivelano il peso della spesa OOP (la spesa sanitaria out of pocket, ovvero sostenuta direttamente dal privato cittadino): 40,26 miliardi nel 2022, l’8,3% in più rispetto all’anno precedente. Di questi miliardi, una quota rilevante è dedicata alle cure odontoiatriche, tra le prime a essere rinviate da chi ha pochi soldi.
Con il Covid i ricoveri ospedalieri erano calati drasticamente (99 per 1.000 abitanti), per ritornare rapidamente, già nel 2022, a livelli pre-pandemici. L’aumento è legato al recupero degli interventi posticipati a causa dell’emergenza, ma è anche segnato dal riproporsi della mobilità sanitaria interregionale. Tra le varie cause del fenomeno c’è anche la capacità delle regioni di rispondere alla domanda di cure dei propri residenti. Nel 2022 delle 11 regioni risultate con offerta insufficiente 5 sono al sud, guidate dalla Calabria. La mobilità sanitaria dalle regioni meridionali è prevalentemente diretta al nord, un ulteriore ostacolo all’accesso alle cure per chi sia in condizioni di precarietà economica. È infatti presumibile che la persona malata sia accompagnata almeno da un famigliare, con costi accessori (viaggio, soggiorno, eventuali assenze dal lavoro) decisamente superiori a quelli di una, altrettanto malata, ma residente al nord.
Sono pochi indicatori, ma sufficienti a mettere in evidenza come sia ancora lontano l’obiettivo indicato dall’art. 32. Per certi versi, anzi, quell’obiettivo pare allontanarsi.
Tra il dire e il fare: i casi dei Nuovi LEA e del Fascicolo Sanitario Elettronico
Introdurre innovazioni è questione tutt’altro che semplice, come dimostrano questi casi. I Nuovi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) hanno visto la luce con il DPCM 12/01/2017 che andava a sostituire il DPCM 29/11/2001 grazie al quale erano state definite quali e quante prestazioni da erogare in modo uniforme sul territorio nazionale. Nel contesto della riforma del Titolo V della Costituzione (l. Cost. 3/2001) da cui sono scaturiti i 21 SSR (Servizi Sanitari Regionali: 19 regioni e le due province autonome di Trento e Bolzano), i LEA costituiscono il pilastro per la ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale, stanziato ogni anno dallo Stato. Concretamente, la distribuzione delle risorse si è dimostrata nel tempo tutt’altro che semplice: la banale ripartizione del Fondo in base al numero di residenti in ogni singola regione e delle province autonome di Trento e Bolzano, ad esempio, non terrebbe conto delle caratteristiche della popolazione – e i fabbisogni di cura – distribuiti in modo non uniforme sul territorio nazionale. I criteri e i pesi relativi da considerare sono oggetto di trattative complesse in seno alla Conferenza Stato Regioni, giunta a fine 2022 ad un nuovo accordo per consentire una distribuzione più equa delle risorse, reso esecutivo dal decreto del ministero della salute del 30/12/2022. Nonostante il fresco accordo, la ripartizione del Fondo stanziato per il 2023 è però stata decisa solo il 30 novembre 2023. L’applicazione completa dei Nuovi LEA, tanto attesa da chi, per esempio, è vittima delle c.d. patologie rare, rimane sullo sfondo. Tutto sarebbe pronto, inclusi gli stanziamenti – pari a 3,466 miliardi di euro dal 2016 al 2023, secondo i calcoli della Ragioneria di Stato – ma il decreto attuativo, con le nuove tariffe, pure pubblicato in Gazzetta Ufficiale (DM 23/06/2023) non è mai entrato in vigore. Di rinvio (DM 31/03/2024) in rinvio (DM 25/11/2024) e con varie modifiche, si è arrivati alla fine del 2024 con il rischio caos. L’ultima versione del Decreto Tariffe, infatti, è oggetto di ricorso al Tar del Lazio ed in un primo momento ne era stata sospesa l’applicazione. Il Tar ha annullato la sospensione, ma rimane l’incognita sulla decisione finale. I fondi stanziati, nel frattempo, sono stati spesi: «utilizzati dalle regioni per coprire altre occorrenze della spesa sanitaria e soprattutto inefficienze/squilibri dei loro servizi sanitari» suggerisce il Ragioniere Generale dello Stato (prot. MEF – RGS 63535) che non manca di mettere in luce l’ennesima causa di mobilità sanitaria: «le differenze nell’erogazione di prestazioni tra le regioni, con l’ulteriore posticipo proposto, consoliderebbero le disparità assistenziali che attualmente si registrano nei territori regionali. Tali significative differenze (…) determinano, inoltre, flussi di mobilità sanitaria verso le regioni che già oggi possono erogare numerose prestazioni ricomprese nel nuovo nomenclatore allegato al Dpcm 12/01/2017, in quanto hanno provveduto negli anni ad aggiornare il nomenclatore tariffario regionale inserendo nuove prestazioni». Non è chiaro quali regioni abbiano richiesto l’ulteriore rinvio, ma l’attitudine a posticipare stride in un contesto come quello sanitario nel quale le innovazioni per diagnosi e cura capaci di accendere speranze si succedono in modo frenetico. In teoria, l’aggiornamento dei LEA dovrebbe essere continuo grazie a una Commissione ad hoc, insediata a fine luglio 2020 e in carica per tre anni. È stato necessario un anno di attesa per giungere all’insediamento della nuova commissione, avvenuto il 18 luglio 2024. D’altra parte anche i risultati del Nuovo Sistema di Garanzia (NSG), creato per monitorare l’erogazione dei LEA, mostrano che questo non è tempestivo; se lo fosse, potrebbe essere uno strumento utile sia ai cittadini – messi nella condizione di avere una valutazione meno soggettiva su come effettivamente il proprio governo regionale amministra la sanità – sia per i decisori cui potrebbe forse offrire elementi di indirizzo per le politiche sanitarie. Invece i risultati NSG relativi al 2022 sono stati definitivamente validati il 20 giugno 2024, con una versione che smentisce, almeno in parte, la versione provvisoria diffusa nel corso di un’audizione al Senato ad inizio 2024. Viene da interrogarsi su cosa rallenti la raccolta e l’elaborazione dei dati e, ancor di più, sulla reazione dei senatori cui fu offerto un quadro con tinte più fosche di quanto non siano già. Nella versione provvisoria solo 9 regioni risultavano aver raggiunto la sufficienza nelle tre macro-aree di valutazione (Prevenzione, Distrettuale, Ospedaliera), ma nei pochi mesi intercorsi molte sono riuscite a recuperare posizioni, cosicché nella versione definitiva risultano insufficienti 8 regioni (3 macroaree: Valle d’Aosta; 2 macroaree: Calabria, Sicilia, Sardegna; 1 macroarea: Bolzano, Abruzzo, Molise, Campania). Tra le insufficienti prevalgono le regioni meridionali, a confermare il divario nord-sud. Salvo recuperi dell’ultimo momento, anche per il 2023 la classifica provvisoria NSG diffusa a fine novembre 2024 conferma i risultati dell’anno precedente. Tra le pieghe di questa classifica, frutto di una così lunga elaborazione, ci sono i cittadini che non hanno potuto accedere a cure adeguate al momento giusto. Tra questi, ad esempio, i malati oncologici cui serve rivolgersi alla Rete di cure palliative: solo otto regioni hanno raggiunto la sufficienza in questo ambito (dati NSG per il 2022).
Anche il Fascicolo Sanitario Elettronico, di cui questo Rapporto segue l’evoluzione da dieci anni, è ancora lontano dall’essere utilizzato al massimo delle sue potenzialità. In teoria, potrebbe consentire ai cittadini di avere la propria cartella clinica, con privacy tutelata, sempre disponibile, e questo potrebbe tornare utile, ad esempio, in caso di emergenze. Potrebbe inoltre consentire di ridurre i costi per cure inappropriate e, con la smaterializzazione dei documenti – a cominciare dalle prescrizioni mediche – anche quelli legati all’uso di carta. Infine, potrebbe agevolare la raccolta dati, in forma anonima, sulle cure erogate. I rinvii sono stati numerosi, legati anche al problema non secondario dell’interoperabilità. Il SSN, infatti, si articola in 21 sistemi regionali e tutti, potenzialmente, avevano la facoltà di avviare una propria piattaforma. Solo alcune regioni hanno investito in questo settore ma non congiuntamente. Si è così giunti ad avere sistemi con funzionalità diverse e non compatibili tra loro. Forse l’obiettivo sarà infine raggiunto con il Fascicolo Elettronico 2.0, varato con il decreto del ministero della salute del 7/9/2023, che dovrebbe essere operativo su tutto il territorio nazionale nel corso del 2026. A dare un’accelerazione significativa all’implementazione sono i fondi del PNRR, stanziati nel 2022. Nel processo è stato coinvolto anche il Garante della Privacy, già intervenuto più volte nel corso degli anni, per la protezione dei dati estremamente sensibili destinati ad essere contenuti nel FSE. Il Garante ha espresso due pareri su come la versione 2.0 sarebbe stata impostata: il 295/2022 che evidenziava potenziali criticità e il 256/2023, positivo.
Con il fascicolo 2.0, comunque, regioni e P.A. continuano a procedere per conto proprio, per cui le indicazioni del Garante non sono state applicate in modo uniforme da tutte le regioni e P.A., con violazioni di varia gravità ancora da sanzionare. Anche l’impostazione del sito dedicato, la grafica, le funzionalità, cambiano. I cittadini, quindi, nel caso di trasferimento da una regione all’altra, devono apprendere come muoversi nel nuovo ambiente digitale, questione non banale se si considerano le ridotte competenze informatiche della popolazione in generale. Dalle rilevazioni relative al periodo giugno-agosto 2024, l’abitudine a consultare il FSE, il fascicolo sanitario elettronico, da parte dei cittadini non pare diffusa: solo il 18% tra quanti avevano un documento reso disponibile nei 90 giorni precedenti ha consultato il proprio FSE. Si tratta di una media nazionale, ma anche in Emilia-Romagna, una delle regioni che da più tempo ha avviato il progetto FSE, la percentuale è relativamente bassa (39%), superata dalla provincia di Trento (50%), mentre sono ben 10 ad avere tassi di consultazione sotto il 5% (Marche, Sicilia: 1%; Abruzzo, Calabria, Molise: 2%; Basilicata, Liguria, Puglia: 3%; Lazio, Umbria: 4%). È possibile che incida la scarsa dimestichezza con lo strumento FSE, ma è anche possibile che intervengano altre cause, tra cui la perdurante presenza di aree ancora non raggiunte da internet.
Aspetta che ti passa: le liste d’attesa
Quanto sono effettivamente lunghe le liste d’attesa? Per quale tipo di prestazioni (visite specialistiche, servizi di diagnostica, interventi)? Caratterizzate da quale urgenza? Quanti sono costretti a rivolgersi al settore privato, avvalendosi della sola detrazione fiscale, in mancanza di posti disponibili nel settore pubblico e/o privato convenzionato? Quanti scelgono le prestazioni intramoenia e perché? E, ancora: come sono stati spesi gli oltre due miliardi stanziati per ridurre le liste d’attesa relative alle prestazioni non erogate durante la pandemia?
La risposta a quest’ultima domanda arriva dalla Corte dei conti(3) ed è desolante: «emerge che la relativa più ampia finalizzazione, normativamente prevista, possa indurre le Regioni ad utilizzarle in via prioritaria per ripianare i loro disavanzi sanitari regionali e, solo residualmente, per abbattere le liste di attesa». Non è solo questo il problema: i flussi di dati sulle liste d’attesa inviati dalle regioni non sono omogenei, per qualità e quantità, i risultati sono autocertificati ed è dunque difficile rispondere alle altre domande sopra elencate. Non sarebbe, però, tutta responsabilità della riforma del Titolo V della Costituzione: «Sul punto, appare opportuno rammentare la potestà legislativa esclusiva assegnata allo Stato dall’art. 117 della Costituzione che al comma 2, riconduce alla competenza statale la materia del “[…] coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale” (lettera r) all’interno della quale appaiono pacificamente collocabili le attività di monitoraggio(4)»
Questo risultato è ancor più desolante se si considera che il tema delle liste d’attesa torna periodicamente alla ribalta ed è oggetto di produzione normativa dal 1994 (l. 724, art. 3, c. 8: registri delle prestazioni, per garantire la trasparenza), cui seguono le norme richiamate nel Piano nazionale di governo delle liste di attesa per il triennio 2010-2012 (PNGLA), nel quale è esplicitato che le liste d’attesa sono – anche – uno strumento di governo dell’offerta di servizi da parte del SSN e di contenimento dell’inappropriatezza (prestazioni non necessarie e/o dannose). A quel piano è seguito il PNGLA 2019-2021 che prevede anche l’istituzione dell’Osservatorio Nazionale sulle Liste di Attesa, cui è anche assegnato il compito di svolgere il monitoraggio dell’effettiva applicazione di quanto previsto dal Piano. Al tavolo partecipa anche la rappresentante di un’organizzazione civica di tutela della salute, come previsto dal decreto istitutivo. Il fatto che la medesima organizzazione abbia promosso indagini proprie sul fenomeno induce il sospetto che la raccolta dati non sia, almeno in parte, efficace ed efficiente. Viene in effetti pubblicato un Report dei Monitoraggi Nazionali ex ante dei tempi di attesa per l’attività libero professionale intramuraria (ALPI) e volumi di prestazioni ambulatoriali e di ricovero erogate in attività Istituzionale e ALPI. Il più recente è relativo all’anno 2022. I dati non sono estrapolati dal flusso totale delle prestazioni prescritte e/o erogate, ma rilevati con un’apposita procedura, in settimane specifiche nel corso dell’anno. Il monitoraggio così svolto ha rilevato anomalie, in particolare rispetto al rapporto tra prestazioni in intramoenia (ALPI) e istituzionali in alcune realtà. In concreto, il medesimo professionista dedica una parte della sua giornata lavorativa al SSN, per le ore stabilite dal contratto di assunzione e un’altra parte, aggiuntiva, all’attività intramoenia. Le prestazioni svolte durante le ore come dipendente del SSN sono quelle definite istituzionali e per il cittadino comportano il pagamento del ticket; quelle intramoenia, invece, svolte da libero professionista, sono a totale carico del cittadino, che paga la fattura. In teoria le prestazioni intramoenia dovrebbero essere programmate dalle aziende sanitarie in modo tale da non interferire con quelle istituzionali. Il rapporto prestazioni ALPI/istituzionali diventa quindi un indicatore dell’efficienza del servizio erogato al pubblico: se è prossimo al 100% o addirittura lo supera, il monte ore di prestazioni in regime istituzionale è insufficiente. Questo risultato può essere frutto, in ipotesi, di un’organizzazione inadeguata in seno al singolo servizio oppure di un numero insufficiente di professionisti dedicati dal SSN (o dai servizi convenzionati) per erogare le prestazioni istituzionali. Va ricordato, inoltre, che non tutte le prestazioni hanno la medesima urgenza: la richiesta di prestazione, solitamente formulata dal medico di medicina generale, deve specificare entro quando deve essere svolta, in base alla gravità dello stato clinico del paziente, da un minimo di 72 ore per l’urgenza a un massimo di 120 giorni. Il grado di urgenza di una prestazione dovrebbe assicurare non solo l’accesso tempestivo alle prestazioni a chi realmente ne ha bisogno, ma – anche – contenere la cosiddetta medicina difensiva, messa in atto dai medici per tutelarsi da contenziosi legali o per mantenere un buon rapporto con il paziente, con un peso stimato nel 2015 del 10.5% della spesa sanitaria totale.
Fatte queste premesse, emerge che la quota 100% per il rapporto prestazioni ALPI/istituzionali è superata da 16 SSR su 21 in almeno una situazione, e questo accade soprattutto per visite ed ecografie ginecologiche. Le prestazioni maggiormente erogate in modalità ALPI si concentrano su alcune specialità in particolare: ginecologia, ortopedia e oculistica. Il report – relativo a 4 settimane campione su tutto l’anno – non è pensato per raccogliere informazioni su quali siano le motivazioni che spingono i cittadini a scegliere la strada della prestazione intramoenia. Tra le cause, oltre alla possibile lunga attesa per la prestazione erogata in modalità istituzionale, ce ne possono essere altre: ad esempio, il rapporto fiduciario con un professionista specifico; l’impossibilità/difficoltà a raggiungere agevolmente il luogo in cui è possibile ricevere la prestazione in modalità istituzionale; la copertura della spesa grazie a un’assicurazione integrativa. A ogni motivazione, evidentemente, possono corrispondere soluzioni diverse per ridurre, nel caso, il ricorso alle prestazioni ALPI. È, infatti, ben diversa la situazione del cittadino cui è sostanzialmente imposta la soluzione intramoenia per questioni logistiche – si pensi agli anziani non automuniti, cui è proposta la prestazione istituzionale in strutture lontane e/o difficili da raggiungere – da quella del cittadino che ha avviato una relazione terapeutica, ambito nel quale è possibile si annidino, anche, forme di malcostume, alla situazione, infine, di chi ha scelto l’assicurazione integrativa.
La distribuzione per specialità del ricorso alle prestazioni intramoenia mette in luce un possibile problema, soprattutto nel lungo periodo. Ad esempio, chi si dedica alla medicina d’urgenza ha meno occasioni di svolgere prestazioni intramoenia rispetto a chi sceglie la ginecologia, con conseguenti ripercussioni sul reddito. È quindi possibile che alcune specialità risultino meno attraenti, soprattutto per i giovani in formazione e questo comporti, in futuro, una carenza di specialisti negli ambiti meno remunerativi. È pure possibile che il fenomeno dei c.d. gettonisti (medici che lavorano per il SSN con contratti a chiamata, meglio remunerati dei colleghi con contratti a tempo indeterminato) sia in qualche misura legato alle diverse opportunità di reddito delle varie specialità.
Tra le informazioni presenti nel report una in particolare sorprende: il sistema CUP (Centro Unico di Prenotazione) ancora non è l’esclusivo strumento di gestione delle prenotazioni per diversi SSR. Lo strumento dovrebbe consentire, tra gli altri obiettivi, di contenere le liste di attesa. Le prime linee guida per i CUP risalgono al 2009, ma nel 2022 solo 12 regioni lo hanno utilizzato per il 100% delle prenotazioni. Altrove, per gestire le prenotazioni si usano ancora le agende cartacee, gestite dalla struttura o dal professionista, o strumenti alternativi (in Calabria e Lombardia: meno del 10% dei casi; in Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Piemonte, Sardegna e Sicilia: tra il 20 e il 40%). È difficile ipotizzare cosa provochi questa inadempienza: sono regioni eterogenee per popolosità, propensione all’avanzamento tecnologico, risorse, strutture.
Queste lacune hanno almeno due conseguenze significative, una sul versante delle politiche sanitarie, sia a livello nazionale, sia a livello regionale, l’altra sulla qualità di vita dei cittadini. Il flusso di dati lacunoso dei CUP, infatti, rende arduo rilevare se e dove, effettivamente, le liste di attesa incidano sulla qualità ed appropriatezza delle cure fornite dal SSN, e, di conseguenza, ancor più arduo definire i finanziamenti utili ad assicurare l’accesso alle cure su tutto il territorio, regionale e nazionale. Per i cittadini, invece, l’assenza di un sistema CUP efficiente si può tradurre in estenuanti perdite di tempo per la prenotazione e, soprattutto, nella percezione di essere non un cittadino che esercita il proprio diritto alla salute in un contesto di trasparenza, ma un individuo in balia del caso.
Chi più spende, meno spende. Non sempre, forse
Il diritto alla salute è costituzionalmente garantito. Il modello di riferimento è il c.d. Beveridge(5), finanziato dalla fiscalità generale. Va ricordato che questo diritto non si esaurisce con l’erogazione delle cure in caso di malattia, ma comprende anche la prevenzione, anche nei luoghi di vita e di lavoro. Il campo di azione, di conseguenza, è amplissimo e giustificato dal fatto che più prevenzione è svolta, minori sono i costi – da quelli sostenuti dal SSN per le cure a quelli dei singoli, in termini di sofferenza prevenibile, passando per tutte le prestazioni legate all’assistenza sociale – da sostenere. Obiettivi tanto ambiziosi richiedono una grande disponibilità di risorse. È su questo aspetto che il dibattito periodicamente si accende: qual è la quota da dedicare al SSN?
Sul tema è intervenuta anche la Corte costituzionale che ha definito il diritto alla salute un diritto finanziariamente condizionato, in un bilanciamento ragionevole con altri valori costituzionali(6).
Il succedersi di crisi finanziarie, in presenza del principio del pareggio di bilancio introdotto in Costituzione con la l. cost. 1/2012, rende il tema della quota da destinare al Fondo Sanitario Nazionale destinato a finanziare il SSN particolarmente scottante e di forte contesa, sia in fase di definizione della legge di bilancio nazionale in Parlamento, sia in fase di riparto del Fondo in sede di Conferenza Stato Regioni. Nel dibattito spesso compare il confronto con la quota dedicata da altri paesi alla spesa sanitaria. Germania e Francia, scelte qui come termine di paragone perché parte sia dell’Unione Europea, sia del gruppo G7. A differenza dell’Italia, fanno riferimento al modello Bismark7. Come si vede dalla tabella, la spesa sanitaria totale di Francia e Germania è stata nel corso degli anni costantemente più elevata, in rapporto al PIL, di quella italiana. Sin dall’inizio della serie considerata, l’anno 2014, Francia e Germania avevano una spesa superiore al 10%, quota che l’Italia non ha raggiunto nemmeno negli anni dell’emergenza legata alla pandemia.
Per converso, l’aspettativa di vita in Italia è superiore a quella di Francia e Germania. Questo significa che la sanità italiana è più efficiente? È possibile, ma è anche possibile che incidano anche altri elementi, quali gli stili di vita. Il raffronto di statistiche che potrebbero fornire indizi sulla qualità dei servizi erogati può essere inoltre falsato dai metodi non abbastanza accurati nella raccolta dei dati. Il caso della mortalità materna ne è un esempio: la rilevazione è spesso poco accurata, in particolare per le morti avvenute nel corso dell’anno successivo al parto, escludendo quindi parte dei suicidi(7). La mancata accuratezza nella rilevazione in questo specifico contesto si traduce in valutazioni fuorvianti: se il tasso di mortalità materna è molto basso, si può giungere a considerare ottimo il servizio erogato, pur in presenza di un alto tasso di suicidi post-partum, perché questi non sono rilevati.
Un elemento significativo però emerge da un altro confronto: la spesa OOP sostenuta dalle famiglie italiane è costantemente intorno al 2%, quota mai raggiunta in Francia e Germania. Poiché la spesa OOP è correlata alla disponibilità reddituale delle famiglie, è possibile asserire che il sistema italiano non sia altrettanto efficace nel tutelare la popolazione, soprattutto quella appartenente alle fasce più deboli. Il fatto che la quota OOP sia lievemente scesa nel 2022 (dal 2.1 al 2%) in un contesto di inflazione elevata (8.1%) e di una parallela riduzione della spesa statale (dal 7 al 6.7%), difficilmente può essere spiegato in modo alternativo: una quota della popolazione è stata costretta a rinunciare alle cure.
Visti i limiti alla spesa pubblica non aggirabili e data la decisione di contenere la quota da destinare alla sanità, si pone quindi la questione della razionalità nella destinazione della spesa. Da questo punto di vista, alcune scelte paiono incomprensibili. Un piccolo esempio può essere illuminante: nel caso del FSE, ogni Sistema sanitario regionale ha destinato risorse per creare un proprio sito. Tralasciando i già menzionati disagi per gli utenti, un unico modello – scelto in accordo in Conferenza Stato Regioni - avrebbe forse consentito di sfruttare economie di scala. Ancora più eclatante è il caso dei medici gettonisti, chiamati a sopperire alle carenze di organico. Il ricorso massiccio alle loro prestazioni suggerisce un’inadeguata gestione delle risorse umane. La scelta di lavorare in sanità richiede sicuramente una certa dose di passione – testimoniata dalla dedizione mostrata durante l’emergenza Covid – ma non si può pensare che sia condizione unica e sufficiente a sopportare ritmi di lavoro intensi. Le indagini svolte per rilevare il rischio di burnout lo dimostrano: oltre il 40% degli infermieri manifesta esaurimento emotivo e oltre il 50% dei medici si dichiara in burnout. Così, se permane l’attitudine a non rinnovare puntualmente i contratti collettivi(8) insieme alla lentezza nella ripartizione del FSN (Fondo Sanitario Nazionale), in sede di Conferenza Stato Regioni, risulta difficile immaginare come si possano programmare efficaci strategie per contrastare tutto l’insieme delle conseguenze, incluso l’aumento del rischio di esiti avversi per i pazienti. La risposta al complesso fenomeno delle carenze di organico è stata in parte affidata al Decreto Bollette (d.l. 34/2023). Anche il ricorso ai gettonisti è stato affrontato dal decreto, le cui linee guida sono arrivate oltre un anno dopo, con il d.m. 17/06/2024.
Date queste premesse, il futuro non si preannuncia roseo, vista la dinamica demografica italiana e la tendenza a trascurare il fabbisogno crescente di reti di cura adeguate ad assistere la popolazione non autosufficiente. Da questo punto di vista, è esemplare la decisione di ridimensionare due obiettivi PNRR: le case di comunità, da 1350 ad almeno 1038, gli ospedali di prossimità, da 400 adalmeno307, con il sospetto che non sia stato valutato adeguatamente il fabbisogno di personale sanitario.
L’adagio chi più spende, meno spende pare si possa sempre meno applicare alla dimensione collettiva, di uno Stato che investe nella salute dei cittadini, e sempre di più alla dimensione del singolo individuo, in grado di investire risorse proprie per garantirsi cure e migliore qualità di vita o, vista in altri termini, minore sofferenza.
Una panoramica degli ultimi dieci anni
Inseguire la libertà
Era il 29/11/2019 quando anche il più distratto dei parlamentari avrebbe dovuto cogliere l’urgenza della materia leggendo sulla Gazzetta Ufficiale queste parole: «Questa Corte non può fare a meno, peraltro, di ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore». Si tratta di parole tratte dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale sul suicidio medicalmente assistito. Pur considerando una possibile influenza della pandemia, nel luglio 2022 l’iter del disegno di legge era ancora ben lontano dall’approvazione. Con le elezioni anticipate (25/9/22) il percorso è ricominciato dall’inizio. In entrambi i rami del Parlamento giacciono disegni di legge in materia (Camera: 313 e 1659; Senato: 65, 104, 124, 570, 1083), senza rivelare nello svolgimento dell’iter una qualche intenzione di procedere celermente.
Nel perdurare del vuoto legislativo, ma in presenza di quella sentenza che stabiliva le condizioni (diagnosi di malattia irreversibile; presenza di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche; paziente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; dipendenza da un trattamento di sostegno vitale) il suicidio medicalmente assistito è diventato faticosamente realtà, per pochi. Ogni storia racconta la violenza subita da chi ha fatto richiesta alla ASL di accedere a questo diritto. È una violenza particolare, fatta di attese – della valutazione sulla sussistenza dei requisiti, del parere del comitato bioetico territorialmente competente – intervallate da solleciti, denunce, ricorsi a tribunali e ancora attese. Tra coloro che hanno ricevuto il sostegno dell’Associazione Luca Coscioni, in prima fila per tutelare l’accesso a questo diritto, solo una persona, in Veneto, non ha dovuto fare ricorso ad azioni giudiziarie. Era una donna malata terminale di cancro e nel suo caso il trattamento chemioterapico, che prolungava la sua esistenza, è stato riconosciuto come trattamento di sostegno vitale. L’ASL, inoltre, le ha fornito il farmaco letale e il macchinario per l’autosomministrazione, ma non ha individuato il medico disposto a presenziare al suicidio, medico trovato dalla donna stessa. A fine 2023, invece, una donna friulana ha ricevuto tutta l’assistenza (farmaco, macchinario e medico) dalla ASL, dopo aver però affrontato una lunga battaglia. Altri, invece, hanno dovuto seguire la strada del primo cui fu concesso il suicidio medicalmente assistito, ma non a carico del SSN. L’ultimo caso di cui si ha notizia è avvenuto in Toscana.
La lentezza nello svolgimento delle procedure si accompagna alla ondivaga definizione di cosa sia il sostegno vitale. Se nel caso della donna veneta, nel 2022, malata oncologica terminale lo erano i trattamenti chemioterapici, non lo erano le terapie antalgiche - che includevano il Fentanyl - assunte da Sibilla Barbieri, malata oncologica terminale nel 2023 nel Lazio. Nel verbale della commissione aziendale dell’ASL Roma1 sono riportati stralci del parere, positivo, del comitato etico: «questo Comitato ritiene che (…) si possa configurare una condizione di dipendenza da farmaci che sebbene non necessari per il sostegno vitale siano utili per assicurarle un’accettabile qualità di vita (…) un tentativo di attenuazione delle ulteriori complicanze legate alla inevitabile evoluzione della sua patologia». Queste parole non sono bastate: la Commissione negava perché «se per quanto attiene le sofferenze fisiche è di tutta evidenza che le condizioni attuali non sono coerenti con sofferenze fisiche intollerabili (…) pur non potendo affermare né negare dal punto di vista scientifico l’intollerabilità delle sofferenze psichiche patite, facendo riferimento all’unico criterio disponibile (dispositivo sentenza C. cost. 242/2019), la commissione ritiene di non poter affermare di aver potuto operare una verifica positiva circa la sussistenza di sofferenze psichiche intollerabili». Sibilla Barbieri è andata a morire in Svizzera il 6/11/2023.
Nel 2024 la Consulta si è nuovamente espressa, con la sent. 135/2024, sul tema del suicidio assistito e ha fornito una definizione più ampia di cosa possa essere inteso per sostegno vitale: «Nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo». Tra le voci ascoltate dalla corte, anche quella di Laura Santi, resa dipendente dal supporto di caregiver dalla sclerosi multipla. L’interpretazione restrittiva di sostegno vitale aveva portato l’ASL Umbria 1 a respingere la sua richiesta di accedere al suicidio assistito. Laura Santi ha sempre un tratto in comune con altre persone – Stefano Gheller in Veneto, Antonio nelle Marche - cui invece è giunto l’assenso: desidera vivere con la certezza di poter scegliere quando morire. La domanda di Laura Santi è stata infine accolta a metà novembre 2024.
Tra le Regioni, cui tocca peraltro garantire l’accesso al diritto al suicidio assistito e che potrebbero di conseguenza regolamentare le procedure, prevale il silenzio latitante, come in Parlamento, invano invitato a legiferare dalla Corte Costituzionale. Eppure lo slancio normativo talvolta si manifesta: per la mototerapia i tempi sono stati ragionevoli. Dovessero poi arrivare entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge anche le linee guida, potrebbe essere difficile astenersi da facili ironie.
La sollecitudine in tema di fine vita è in effetti merce rara: per le DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) era dato al Ministero della salute, alle regioni e alle aziende sanitarie il termine di 60 giorni dall’entrata in vigore della legge (219/2017) per informare il pubblico, anche attraverso i siti internet, e ancora un’adeguata campagna informativa non è arrivata. I risultati si vedono: al 31/12/2022 risultavano depositate 217.326 DAT nella Banca dati (dm 168/2019), che dovrebbe essere consultata dai medici in caso di emergenza, ma solo 489 lo hanno fatto. I dati sono contenuti nella relazione sull’applicazione della legge, aggiornata al 31/12/2022, ma comunicata il 4/12/2023 (il ministro dovrebbe trasmettere la relazione alle Camere entro il 30 aprile di ogni anno). Visto che il Fascicolo Sanitario Elettronico è realtà, si apre anche la possibilità, prevista dalla legge (art. 4, c.7), per le Regioni di regolamentare la raccolta delle DAT nel fascicolo.
In tema di libertà, per quanto in senso decisamente ampio, menzioniamo qui la l. 193/2023 sull’oblio oncologico che riconosce il diritto alle persone guarite di svolgere la propria vita libere da pregiudizi.
Certamente incerti: variazioni in tema cannabis
Per la prima volta da che la vendita di cannabis terapeutica è stata possibile, nel 2014, è stato registrato un calo dei volumi totali. Nel 2023, infatti, sono stati distribuiti 1.453.197,59 grammi della sostanza, 107.482,41 in meno rispetto all’anno precedente. Va però notato che nel 2023 sono stati commercializzati anche 26.847,59 g. di estratti. Dai dati, però, non è possibile capire se infiorescenze ed estratti sono stati resi equiparabili, in termini di concentrazione di principi attivi, e in che modo. Di conseguenza, è possibile che il calo sia solo apparente. Non sono forniti dati sul numero di prescrizioni, sui medici prescrittori, né sulle patologie per le quali è maggiormente richiesta. L’unica altra informazione significativa che si può rilevare dai dati forniti dal ministero è quella sulla produzione dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare (SCFM) di Firenze, al momento l’unico autorizzato a coltivare cannabis per usi medici in Italia. Dopo il picco registrato nel 2021, con 277,515 kg di prodotto, la quantità è progressivamente calata, fino ai 162,02 kg. del 2023. Non è però chiaro se sia effettivamente avviata l’attività del nuovo reparto per la produzione di estratti, presentata dal ministro della Difesa come imminente nel febbraio 2023 durante un’audizione alla Camera. In quel frangente il ministro aveva anche menzionato finanziamenti autorizzati per incrementare la produzione fino a 700 kg., senza però indicare entro quando. Sempre nel corso dell’audizione il ministro ha anche accennato alla procedura per la selezione delle aziende cui affidare la coltivazione di cannabis ad uso medico, in Italia. I produttori dovrebbero comunque conferire le infiorescenze allo stabilimento militare di Firenze, unico autorizzato alle lavorazioni successive.
La fornitura di cannabis terapeutica dipende in larghissima parte dalle importazioni, in particolare dall’Olanda. L’avvio di questa collaborazione tra aziende private e il polo di Firenze consentirebbe una maggiore regolarità nel flusso dei prodotti ai pazienti. A piccoli passi, forse, la coltivazione sarà avviata: il 6/3/2023 è stata conclusa la prima selezione delle aziende. Gli ulteriori passaggi prevedono la valutazione delle capacità tecnico operative di applicare il disciplinare di coltivazione redatto dallo SCFM e, ancora, tre cicli di produzione. Non sono state esplicitate le scadenze per le fasi successive.
Per i consumatori a vario titolo di cannabis si è aperto uno spiraglio con la sentenza 8442 della Sesta Sezione Penale della Cassazione del 24 febbraio 2023: la coltivazione, a uso esclusivamente personale, di un numero esiguo di piante non è reato. Visto che l’uso ricreativo della cannabis è ancora normato dal DPR 309/1990, che consente solo il possesso di quantità esigue, pari al consumo giornaliero (artt. 75 e 78), ma non la coltivazione e la vendita per quello scopo, di fatto i consumatori hanno come unico canale di approvvigionamento il mercato illegale. Il consumo è piuttosto diffuso, stando ai dati della relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze del 2023: l’analisi delle acque reflue stima 50 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti. Nella relazione 2024 si stima la spesa totale per stupefacenti in 16,4 miliardi di €, di cui il 40% sarebbe assorbito dallo spaccio di cannabis. Viste le dimensioni del fenomeno e i pericoli legati agli additivi talvolta rilevati nella cannabis sequestrata, la strada della legalizzazione già intrapresa da diversi stati europei potrebbe rivelarsi corretta, ma non pare che il governo voglia percorrerla, anzi.
Tra le nuove regole introdotte nel codice della strada (l. 177/2024) a fine 2024, spiccano quelle relative alle sostanze stupefacenti. A cominciare dal titolo dell’articolo dedicato al tema (art. 187), cambia la prospettiva: da «Guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti» si passa a «Guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti». Quali criteri di accertamento corrisponderanno al mutato lessico? Quale significato si dovrà attribuire a quel dopo, dato il permanere di tracce della sostanza nell’organismo ben oltre la fine dei suoi effetti psicotropi? Soprattutto, emergono forti dubbi sulla costituzionalità di queste nuove norme, illustrati dall’appello al Presidente della Repubblica promosso da numerose associazioni antiproibizioniste.
Con la legalizzazione, invece, la cannabis ad uso ricreativo si unirebbe al gruppo di sostanze il cui consumo è rilevato dalla relazione annuale: tabacco, alcol, psicofarmaci senza prescrizione medica, sigarette elettroniche, cui si aggiunge il gioco d’azzardo. Sono, nell’insieme, sostanze e abitudini – a eccezione degli psicofarmaci, che dovrebbero essere sempre assunti con prescrizione medica – che potrebbero essere anche definite ingredienti addizionali della socialità, vietate ai minori perché se ne conoscono le conseguenze negative per la salute. Se l’obiettivo fosse quello di tutelare la salute pubblica, allora la smania proibizionista dovrebbe avere come obiettivo il tabacco, cui sono attribuite circa 96.000 morti, di cui più di 8.000 per fumo passivo. Dell’approccio proibizionista alla cannabis si palesa quindi la finalità strumentale, tesa ad agitare la propria di bandiera sul campo, quali che siano le conseguenze. Solo alcune varietà di cannabis, infatti, producono alte concentrazioni di THC: per le altre l’Unione Europea ne stimola la coltivazione, con apposite misure. Tra i tanti possibili prodotti finali di queste piante c’è anche il cannabidiolo (CBD), la cui vendita è consentita. Il rilancio della coltivazione della canapa grazie alla l. 242/2016 è partito lentamente, frenato da controlli sul contenuto di THC e dal timore di normative più restrittive sul CBD, documentate nelle passate edizioni del Rapporto. Anche sul cannabidiolo e sul rilancio della coltivazione della canapa soffia l’effetto bandiera. Finché non cambierà il vento, pare.
Raccomandazioni
- Aumentare i fondi per il SSN per consentire il concreto accesso alle cure, senza distinzione di residenza, cittadinanza, genere.
- Di concerto con la Conferenza Stato Regioni, bisogna uniformare le regole per raccolta di tutti i dati (liste d’attesa, invalidità, bilanci) per raggiungere la massima efficienza delle risorse impiegate
- Il Parlamento deve normare la materia del fine vita e vigilare sulla piena applicazione delle norme su DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) e cure palliative
- Agevolare l’uso del fascicolo sanitario elettronico, anche con campagne di informazione; tutelare la privacy e promuovere standard uniformi su tutto il territorio nazionale.
- Potenziare la medicina territoriale;
- Istituire corsi di educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole: violenza di genere e malattie sessualmente trasmissibili costituiscono serie ipoteche sulla salute delle giovani generazioni e della natalità futura;
- Concludere l’iter per incrementare la produzione nazionale di cannabis terapeutica, anche con l’affidamento a privati, per contenere la dipendenza da fornitori esteri.
- Aumentare i fondi stanziati per il SSN per coprire i maggiori costi legati all’inflazione e colmare il divario tra regioni sull’accesso alle cure.
Note
(1) - Dati Istat: Condizioni di vita e reddito delle famiglie | anno 2023
(2) - CREA Sanità, 19° Rapporto Sanità Il futuro (incerto) del SSN, fra compatibilità macro-economiche e urgenze di riprogrammazione, a cura di: Spandonaro F., d’Angela D., Polistena B., Locorotondo ed., 2023
(3) - Corte dei conti, Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato: Deliberazione 13 novembre 2024, n. 90/2024/G, Riduzione delle liste di attesa relative alle prestazioni sanitarie non erogate nel periodo di emergenza epidemiologica da Covid-19
(4) - Ibidem, p. 19
(5) - Lo schema classico per i modelli di erogazione dei servizi sanitari è tripartito: Beveridge, finanziato dalla fiscalità generale; Bismark, finanziato da assicurazioni sociali di malattia; “libero”, demandato ad assicurazioni volontarie. Nella realtà, si assiste ad una pluralità di modelli, frutto del sovrapporsi dei modelli di riferimento. Per approfondire il tema: Toth, F.: Non solo Bismarck contro Beveridge: sette modelli di sistema sanitario (doi: 10.1483/83929) Rivista Italiana di Politiche Pubbliche (ISSN 1722-1137) Fascicolo 2, Agosto 2016
(6) - In particolare: sentenza 455/1990: «il legislatore nello svolgere le norme costituzionali sul diritto a trattamenti sanitari è tenuto, oltre che a bilanciare l'interesse protetto con altri beni giuridici parimenti tutelati, ad osservare una ragionevole gradualità di attuazione dipendente dalla obiettiva considerazione delle risorse organizzative e finanziarie a disposizione»; sent. 304/1994: «questa Corte ha ripetutamente affermato che nel bilanciamento dei valori costituzionali che il legislatore deve compiere al fine di dare attuazione al "diritto ai trattamenti sanitari" (art. 32 della Costituzione) entra anche la considerazione delle esigenze relative all'equilibrio della finanza pubblica. Non v'è dubbio che, se queste ultime esigenze, nel bilanciamento dei valori costituzionali operato dal legislatore, avessero un peso assolutamente preponderante, tale da comprimere il nucleo essenziale del diritto alla salute connesso all'inviolabile dignità della persona umana, ci si troverebbe di fronte a un esercizio macroscopicamente irragionevole della discrezionalità legislativa». Altre sentenze della Corte sono reperibili in La finanza pubblica nella giurisprudenza costituzionale, curato da Pieroni, M., aggiornato al 2011. Per approfondimenti sul tema: Luciani, M., Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte costituzionale, Rivista AIC, Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 3/2016, 25/07/2016
(7) - Digiusto, C. et al, Maternal mortality in eight European countries with enhanced surveillance systems: descriptive population based study, BMJ 2022;379:e070621
(8) - In proposito: MEF, Documento di Economia e Finanza 2024, note a spiegazione del decremento della spesa sanitaria nel 2023 rispetto al 2022, pari allo 0.2% (spesa 2023: € 131,119 miliardi), pag. 37
Susanna Zambruno Martignetti
Una vita in schiavitù, questo era quello che sentiva Susanna. Una schiavitù a cui è impossibile ribellarsi, catene che non possono essere spezzate, catene che la tenevano prigioniera del proprio stesso corpo. Susanna combatteva contro la sclerosi multipla da ormai 25 anni; era la consapevolezza a farla da padrone nella sua mente, o almeno così sembra a leggere le sue interviste, a chi quel turbine di sentimenti non può nemmeno immaginarlo. Consapevolezza dell’inutilità di qualsiasi tentativo di ribellione alla malattia, e poi consapevolezza dell’impossibilità anche di tentare una via di fuga diversa. La legge non lo permette, persone che non conoscono quelle catene hanno deciso che non si può e non si deve fuggire. Per dignità? Per non offendere niente e nessuno? Chi lo sa.
Susanna non ne poteva più di quelle catene, e la sua determinazione alla fine si rivelò più forte della volontà che altri volevano e vogliono imporre a lei e a quelli che sono oppressi dalla sua stessa schiavitù.
Scelse per sé, scelse ciò che riteneva la via migliore, contro chi avrebbe voluto decidere al posto suo, forse (questo noi non possiamo saperlo) anche contro chi le è stato accanto, comprendendo la sua volontà e dando tutto l’amore che merita una madre, una donna, una combattente, rischiando paradossalmente di subire dure conseguenze una volta portata fino in fondo la sua scelta.
Susanna se ne è andata un 7 marzo, ma per farlo è dovuta andare fino in Svizzera, solo per compiere la propria volontà, sul proprio corpo e sulla propria vita, possibilità che le era stata tolta dalla malattia prima, e dalla legge poi. A chi legge la sua storia senza esserle stato accanto resta un senso di consapevolezza, la consapevolezza della necessità di un diritto, della voglia - forse addirittura del bisogno - di decidere per sé, e quindi dell’impossibilità di decidere per gli altri.