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Salute e libertà terapeutica

Il punto della situazione: l’età dell’incertezza


Tramontata con la pandemia l’età fatta di routine svolte in luoghi e tempi definiti, si apre la fase dell’incertezza. Le contraddizioni dello stile di vita passato erano già ampiamente chiare e non a caso le piazze si riempivano per i Fridays for Future e le Nazioni Unite declinavano i programmi per un futuro sostenibile con l’Agenda 2030.

Nell’incertezza, si è fatto strada il dubbio declinato in più modi. Talvolta, il dubbio è alimentato dalle difficoltà ad allineare il modo di comunicare proprio della comunità scientifica con quello della società, come evidenziano le riflessioni di giornalisti scientifici all’estero e in Italia.

Le difficoltà a conciliare la libertà di espressione con la tutela della salute in un contesto complesso come quello creato dalla diffusione globale, frenetica, di informazioni tramite il web ha alimentato ancor di più i dubbi. L’evolversi della pandemia a ondate successive, difficili da prevedere e contenere, non ha certo aiutato, tanto quanto non aiutano le difficili previsioni su quanto il virus inciderà nel lungo periodo sulla salute di chi è guarito.

Altrettanta incertezza aleggia sulle prospettive future del Servizio Sanitario Nazionale, se si guarda allo svolgersi dell’opposizione alle misure di contrasto alla pandemia in nome della libertà personale. È esemplare, in questo senso, il caso dell’interpretazione forzata dei dati forniti dall’ISS basata sulla percentuale di quanti, nell’insieme dei deceduti a seguito dell’infezione da Sars-Cov-19, non avevano altre patologie (2,9%). Se è vero che non tutti i morti in più rispetto alla media registrata nei 5 anni precedenti (anno 2020: 100.526; anno 2021: 63.415) hanno avuto come causa diretta la Covid (anno 2020: 77.165; 2021: 58.705), l’attenzione sarebbe semmai dovuta volgersi a individuare le lacune nell’assistenza sanitaria a chi avrebbe potuto ragionevolmente attendersi di vivere ancora, nel rispetto dell’art. 32 Cost.. Anche relativamente alla campagna vaccinale, i dubbi sulla sicurezza dei vaccini o sulla loro efficacia, nonostante i report rispettivamente dell’AIFA e dell’ISS hanno sicuramente giocato un ruolo, evidentemente superiore al pensiero di vaccinarsi per contenere la pressione sui servizi di cura e, magari, i decessi non Covid.

In questo contesto, è difficile cogliere quanto sia diffusa la tendenza a voler privilegiare la libertà individuale nelle sue varie declinazioni. Una stima indicativa può essere data dai maggiorenni che al 31/12/2021 non risultavano aver ricevuto alcuna dose di vaccino, oltre 6,5 milioni. È un dato approssimativo, visto che include gli esentati per motivi di salute, che però compensano probabilmente il numero di quanti hanno percepito di subire il vaccino per evitare le restrizioni legate al green pass. In altri termini, circa il 10% dei potenziali elettori pare dimenticare la dimensione collettiva della salute, richiamata dalla Corte costituzionale (sent. 5/2018) a proposito dell’obbligo vaccinale in età scolare: «un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri». Viene quindi da chiedersi quanto possa pesare, in termini di consenso elettorale, un indirizzo della sanità pubblica teso a privilegiare l’aspetto della libertà (come quello che pare destinato a riconfermarsi in Lombardia, che della libertà di scelta tra pubblico e privato convenzionato fa una bandiera) rispetto all’aspetto dell’equità. Va infatti ricordato che la concreta attuazione dei principi guida stabiliti in sede nazionale sono affidati alle singole regioni e province autonome, in sintonia con l’art. 117 della Costituzione.

Nel periodo di incertezza che si prospetta, un elemento della fase tramontata si riconferma, tristemente. È il numero di infortuni sul lavoro denunciati all’Inail: il dato provvisorio per il 2021 è di 1221 morti (di cui 248 in itinere), in calo rispetto al 2020 (1640 totali, 228 in itinere), ma superiore al numero registrato nel 2019: 1219 di cui 332 in itinere(1). Sono tanti, troppi, per poter usare termini che rimandano all’evento imprevedibile, mentre evidenziano una mancanza diffusa della cultura della sicurezza sulle strade e sui luoghi di lavoro, e inefficaci strumenti di prevenzione. Peraltro, il dato sugli incidenti mortali è solo la punta dell’iceberg dell’insalubrità del lavoro: gli infortuni e le malattie professionali nel quadro di crescente precarietà tendono a uscire dal quadro. Il lavoratore non contrattualizzato, magari senza documenti, non ha modo di rivolgersi all’Inail in caso di infortunio, così come il precario, che cambi ripetutamente posto di lavoro, avrà difficoltà a identificare dove ha sviluppato la malattia professionale. Ironia della sorte, potrebbe essere successo per l’inadeguata postazione casalinga in smart-working.


La coperta troppo stretta: chi è rimasto fuori


All’ombra della pandemia non si poteva certo sperare che i cronici problemi della sanità – a cominciare dall’offerta di servizi sanitari non uniforme sul territorio nazionale - si risolvessero. Il succedersi delle ondate ha semmai esasperato le disparità a danno delle fasce più deboli, le cui fila si sono ingrossate. Nel 2020, segnala l’Istat, la percentuale di popolazione in condizione di povertà assoluta(2) è stata la più alta registrata dal 2005 ed è passata dal 7,7% del 2019 al 9,4% della popolazione totale. Sono 5,6 milioni di persone e, tra queste, ben 1.337.000 sono minori, sulla cui salute – attuale e futura – è posta un’ipoteca. Se anche tutte le misure a tutela del diritto alla salute funzionassero, infatti, parte di questi cittadini non avrebbe accesso a tutte le prestazioni di cura, prevenzione e diagnosi precoce di cui godono i non poveri.



C3. Grafico 1 • La spesa sanitaria prevista* dal Documento di finanza pubblica 2022 



Per chiarire: ipotizziamo prestazioni LEA (Livelli Essenziali Assistenza) pienamente erogate in modo uniforme sul territorio nazionale, liste d’attesa conformi agli standard previsti ed esenzioni dal ticket per reddito (L. 537/1993, art. 8, c. 16) e un nucleo famigliare composto da due adulti in età lavorativa e due minori (rispettivamente di 8 e 12 anni). Nel 2020 la soglia di povertà assoluta per una famiglia così composta oscillava da € 1.730,38 al Nord (area metropolitana) a € 1271,06 al Sud (comuni fino a 50.000 abitanti)(3), corrispondente quindi a una capacità di spesa mensile superiore alla soglia di reddito complessivo annuo (€ 12.394,97) utile all’esenzione ticket, peraltro riconosciuta solo in caso di disoccupazione. Per l’ipotizzata famiglia povera spese sanitarie Out of Pocket quali farmaci in parte o totalmente a carico del cittadino(4), cure dentistiche, ticket sanitari erano difficili – se non impossibili – da sostenere e la possibilità di avvalersi delle detrazioni fiscali previste per le spese sanitarie sarebbe suonata come una beffa, forse.

Rimane allora la risorsa delle prestazioni offerte dalle Onlus di vario orientamento – da Emergency alla Caritas – per avere almeno una risposta parziale. L’impegno non pare sufficiente a coprire tutta la potenziale domanda di salute, come esemplificano i dati contenuti nel Rapporto sulla Povertà Sanitaria 2021, pubblicato dal Banco Farmaceutico che riporta di aver assistito quasi 600.000 persone, oltre la metà delle quali (57,3%) italiane. In proposito, va ricordata la sproporzionata incidenza (29,3%) della povertà assoluta tra i residenti stranieri, a fronte del 7,5% stimato tra i residenti italiani.

Pur accantonando gli interrogativi sugli effetti di queste forme di beneficenza sulla concezione stessa del diritto alla salute, rimangono altre questioni. Lo stesso Banco Farmaceutico, ad esempio, ipotizza nel rapporto che la sua rete di 1790 enti concretamente impegnati nella distribuzione degli aiuti non abbia un’omogenea capacità operativa, visto che in Toscana riesce a raggiungere il 63% della popolazione povera, in Lombardia (la cui Regione ha stanziato al Banco un contributo di € 500.000) il 14% e in Campania il 2%. Trapelano, di fatto, le storiche carenze del welfare italiano, affidato in gran parte a reti informali - dalla famiglia al volontariato - ma mai realmente strutturato in modo sistematico su tutto il territorio nazionale.

A questi costi - in termini di qualità della vita, anni di sopravvivenza – provocati dalla povertà, si aggiungeranno quelli più strettamente correlati alla pandemia. Emergono, gradualmente, le stime sulle potenziali vittime collaterali provocate in particolare dal dirottamento delle risorse per fronteggiare l’emergenza protratta. È questo il caso delle malattie cardiovascolari cui, in pre-pandemia, spettava il primato come causa di ricovero ospedaliero, oltre al peso rilevante come causa di mortalità. La SIC (Società Italiana Cardiologia), a seguito di un’indagine svolta in 45 ospedali su tutto il territorio nazionale, rileva significative riduzioni nei servizi di prevenzione e trattamento rivolti ai cardiopatici e paventa un forte peggioramento nei tassi di mortalità per infarti e ictus. Inoltre, la SIC riporta l’aumento dell’incidenza delle patologie cardiovascolari tra i guariti dal Covid, elemento che rende ancora più fosche le previsioni per il futuro, con il rischio di un forte regresso sull’aspettativa di vita e nei tassi di mortalità per infarti e ictus.

Aumenterà, probabilmente, anche la mortalità per tumori: ai ritardi in diagnosi e cure corrisponde un peggioramento negli esiti. I programmi di screening oncologico, parte dei LEA e già segnati da forti differenze sul territorio nazionale, danno la misura di quanto si prospetta: a maggio 2021 l’Osservatorio Nazionale Screening (ONS) stimava in circa 16.200 i casi di mancate diagnosi precoci tramite screening (in dettaglio: 3.504 lesioni alla cervice uterina, 3.558 carcinomi mammari, 1.376 carcinomi colorettali e oltre 7.763 adenomi avanzati del colon retto).



C3. Grafico 2 /A • Il calo delle donne tra i 25 e i 64 anni invitate/contattate per esami di screening cervicale (gennaio 2020 - maggio 2021 vs 2019) 




C3. Grafico 2 /B • Il calo degli esami di screening cervicale nelle donne tra i 25 e i 64 anni (gennaio 2020 - maggio 2021 vs 2019)



Per quanto i centri oncologici si siano impegnati a recuperare i ritardi, anche sulla spinta del Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025, è probabile che l’impatto delle varianti Delta e Omicron sulle strutture sanitarie abbiano prodotto un nuovo rallentamento di passo, sia per le diagnosi (per il melanoma, ad esempio), sia per l’accesso alle cure, inclusi gli interventi chirurgici. Ancora una volta, ad essere penalizzate, saranno le fasce più deboli della popolazione – per livello di istruzione e reddito - che non hanno i mezzi per rivolgersi alla sanità privata, come sembra ipotizzare l’ONS nel suo studio.

Anche l’INPS, peraltro, nell’analisi della mortalità in eccesso tra i titolari di pensione di vecchiaia (49.806 morti in più rispetto ai 304.327 attesi nel 2020) ripropone la correlazione tra reddito e probabilità di morte, accentuata soprattutto tra le fasce di reddito centrali. Viene il sospetto che quell’eccesso di mortalità sia allora in qualche misura da correlare anche alla degenza nelle case di riposo, cui non accedono i più poveri e i più ricchi, per opposte ragioni di reddito.


Corpi sessuati: la grande rimozione


Morire di Aids per un pregiudizio, anche. Da quanto riferiscono le cronache pare infatti che alcuni sanitari non abbiano valutato correttamente i sintomi manifestati da una donna, perché non rientrava nelle categorie a rischio, così ritardando diagnosi e cure.

Nella sua drammaticità, questa vicenda apre uno squarcio su rimozioni e pregiudizi legati al corpo come entità sessuata. In tema di sessualità, prevale l’abbinamento alla procreazione, come pare suggerire la pagina dedicata all’educazione all’affettività e alla sessualità del ministero della salute. Il consolidato calo delle nascite, acuito dalla pandemia (2020: 15.000 nati in meno rispetto al 2019; 2021, da gennaio a settembre: 12.500 nati in meno rispetto al medesimo periodo del 2020), non basta però a giustificare lo scollamento dalla realtà concreta. Pare invece illuminante l’esito del dibattito parlamentare sul ddl Zan, così come la mancata discussione del ddl 2402/2016 Di quel testo, che avrebbe reso illegali le pratiche di conversione dell’orientamento sessuale e ancora esercitate in Italia, si è persa traccia.

In un gioco di specchi, alle rimozioni operate dal legislatore ne corrispondono altre, come rivela la scarsa produzione scientifica, ancora segnata da stereotipi(5), sulla sessualità degli anziani, nonostante il progressivo invecchiamento della popolazione. Così, anche se l’Italia si è dotata di una norma specifica (L. 3/2018, art. 3) e di un Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere nel 2019(6), la fonte cui attingere dati su sperimentazione clinica, farmacologica, biomedica è scarsa, anche a livello internazionale. La conferma è data, ad esempio, da un articolo pubblicato da Nature, con l’esame dei dati contenuti in 4420 studi clinici legati alla pandemia: sebbene ci sia consapevolezza del diverso impatto di virus e vaccini in relazione al genere, solo una minima quota considera la variabile sesso. Ancora: per quanto da anni si discuta di cecità di genere, i dosaggi dei farmaci continuano in gran parte ad avere come riferimento il corpo neutro universale di un maschio di 70 kg.

Dato il contesto, non sorprende la costante crescita di diagnosi tardive di AIDS evidenziata dall’ISS: nel 2020 l’80,4% dei nuovi casi riguardava persone che da meno di sei mesi si erano sottoposte a un test HIV risultato positivo. Inoltre, delle nuove diagnosi di AIDS formulate nel 2020 il 56% riguardava eterosessuali e il 46% pazienti di età superiore ai 50 anni. Va, peraltro, ricordato che nel corso della pandemia le nuove diagnosi HIV sono calate in modo sensibile (2020: - 56%) ed è possibile che a questo calo corrisponda un ulteriore incremento delle diagnosi tardive una volta che l’emergenza sanitaria potrà dirsi definitivamente conclusa.

Ugualmente non sorprende che lo stesso ministero della Salute riconosca quanto il percorso per giungere alla diagnosi di endometriosi sia lungo e dispendioso. È una patologia cronica, inserita nei LEA, e particolarmente diffusa, se si considerano i dati del ministero: sono almeno 3 milioni le donne con diagnosi conclamata su una popolazione poco meno di 13 milioni(7) (fascia di età 14-50 anni). Anche per questa patologia gli stanziamenti sono accompagnati dall’accento sulla fertilità, mentre giace in Senato il ddl 888/2018 volto non solo ad affrontare gli aspetti sanitari della malattia, ma anche quelli sociali e lavorativi. Al momento, la sola industria farmaceutica pare aver colto la rilevanza dei dolorifemminili A giudicare però dalle intense campagne pubblicitarie per prodotti specifici, la rappresentazione di questi dolori quale fastidioso intralcio alla vita efficiente trasmette la percezione che la sofferenza femminile sia, di fondo, un fatto fisiologico, costitutivo dell’essere donna e non un possibile sintomo di patologie serie.

La transizione culturale verso la medicina di genere appare quindi ancora accidentata, testimoniata, nei suoi vari risvolti, anche dalla scarsa attenzione nei confronti della popolazione transgender. In questo caso emergono vari problemi tra cui la difficoltà a stimare con maggiore precisione l’ampiezza del gruppo, informazione necessaria per una programmazione sanitaria adeguata agli specifici problemi di salute. Alcuni interventi, tra i quali la pubblicazione indirizzata agli operatori sanitari e il portale infotrans promossi dall’ISS, aprono però lo spiraglio a un cauto ottimismo.

Come evidenziato dalla Commissione per l’Etica della Ricerca e la Bioetica del CNR rispetto alla ricerca farmacologica, non considerare il genere ha implicazioni anche da un punto di vista costituzionale. La garanzia del diritto alla salute, infatti, non si esaurisce nell’offrire l’accesso alle cure, se queste non assicurano uguale appropriatezza.


Quando non basta l’ottimismo: mondo digitale e salute


Decisamente arretrata in ambito digitale - è l’indice DESI ad attestarlo - l’Italia si propone di compiere nel settore delle competenze digitali passi da gigante entro il 2025. Figura, ad esempio, l’obiettivo di raggiungere quota 70% della popolazione con competenze digitali di base (ora al 42%). L’impegno profuso pare essere notevole, come attesta il rapporto di monitoraggio del Piano operativo, anche se lascia un po’ interdetti che tra i fattori considerati ci siano quelli «fisiologici legati allo shift generazionale; basti pensare al fatto che nei prossimi anni la popolazione senior avrà competenze digitali più sviluppate rispetto a quella attuale»(8).

Nel campo specifico della salute, l’ottimismo è trainato dagli investimenti previsti dal PNRR diretti a potenziare telemedicina, sistemi informativi e pure il FSE(9) (Fascicolo Sanitario Elettronico), definito dal PNRR «pietra angolare per l'erogazione dei servizi sanitari digitali e la valorizzazione dei dati clinici nazionali»(10). Visti i pregressi, è un vero esercizio di ottimismo guardare al futuro. Il FSE è in cantiere da almeno 15 anni e ancora non è diffuso in modo uniforme sul territorio nazionale.

Ogni Regione e Provincia Autonoma, infatti, sviluppa il proprio FSE, nell’ambito del regolamento concordato e contenuto nel DPCM 178 del 29 settembre 2015, in conformità con le Linee guida nazionali sancite dall’intesa in Conferenza Stato Regioni e Province Autonome del 2011. Consultare il sito del Fascicolo Sanitario Elettronico per avere una panoramica nazionale riserva sorprese: se il numero di FSE attivati è elevatissimo – pari quasi al totale della popolazione residente - come conseguenza di un automatismo (l. 77/20, art. 11), risultano sconfortanti i dati del monitoraggio, che illustrano in dettaglio il concreto utilizzo da parte di Aziende Sanitarie, operatori e cittadini del FSE, anche in Regioni (tra queste: Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna) da più tempo impegnate su questo terreno.

Sorprende, in particolare, l’uso da parte di medici di medicina generale (MMG) e pediatri di libera scelta (PLS): nel 4° quadrimestre del 2021 solo in quattro Regioni questi professionisti hanno alimentato il Profilo Sanitario Sintetico (PSS) dei propri pazienti. La percentuale dei medici che l’ha fatto in ognuna delle regioni varia sensibilmente: 1% in Friuli-Venezia Giulia; 19% in Sicilia; 27% in Umbria; 57% in Valle d’Aosta. In genere, i numeri assoluti di PSS popolati (alimentati) da MMG/PLS sono piuttosto contenuti, anche laddove dai dati di monitoraggio il numero di medici utilizzatori dello strumento FSE risulti elevato. Ad esempio, tra le Regioni in cui il numero di MMG e PLS abilitati a utilizzare il FSE risulta corrispondere a quanti lo hanno concretamente utilizzato (100%) c’è la Lombardia (6.594 MMG e PLS abilitati), ma risultano 390 PSS su un totale di 10.054.374 FSE(11), mentre in Emilia-Romagna le cifre sono: 3.473 medici abilitati/utilizzatori, 12.319 PSS (totale FSE: 4.371.185)(12). I numeri, altrove, si fanno esigui: in Molise (10 medici utilizzatori su 305 abilitati e 10 PSS su 5.350 FSE)(13); in Calabria (3 utilizzatori su 1.672 abilitati e 58 PSS su 1.819.897)(14) fino alla Liguria (1.254 medici abilitati, 0 utilizzatori; 0 PSS su 1.534.544 FSE)(15). Nell’insieme, non è facile cogliere quali siano le cause di una così limitata abitudine a usare e, soprattutto, ad alimentare il FSE. Definiti nel 2017 come i più tecnologici di tutti i medici, i MMG riconoscevano nelle scarse competenze digitali della categoria una barriera significativa. Con l’esperienza della pandemia, non molto pare cambiato: secondo l’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità solo il 60% dei medici, specialisti e di medicina generale, ha competenze digitali di base e una quota ridottissima (4%) ha un livello adeguato di eHealth Competences. Se i professionisti esperti in telemedicina sembrano convinti dell’utilità del FSE e, anzi, ne propongono una riformaurgentissima per renderlo uno strumento davvero efficace, dai MMG non traspare altrettanta attenzione, almeno al momento di salutare - ad inizio 2022 - la nuova (tardiva) convenzione per il biennio 2016-18, che pure prevede specifici impegni collegati al FSE.

Al cittadino fruitore – potenzialmente il meno attrezzato in fatto di competenze digitali - pare sia stata dedicata poca cura, in tema di facilità di accesso alle informazioni, fruibilità dei servizi, linguaggio. In nome delle autonome scelte regionali in materia di politica sanitaria i 21 FSE non sono uniformi per grafica, contenuti, prestazioni cosicché il cittadino deve – nel caso in cui cambi regione di residenza – adattarsi ad apprendere nuove procedure, posto che l’interoperabilità tra le diverse Regioni sia attiva e consenta al cittadino di traslocare con facilità i propri dati sanitari. Nonostante la presenza di una struttura apposita, l’Infrastruttura Nazionale per l’Interoperabilità (INI), pare infatti siano numerose le persone che non riescono più ad accedere ai propri dati sanitari presenti sul FSE dopo aver cambiato regione di residenza. La questione è da tempo sul tavolo: basti ricordare che il parere del Garante della Privacy in proposito è del 2018. La mancata soluzione del problema è particolarmente grave nel caso di malati cronici. È però probabile che solo una minoranza di cittadini sia interessata: nonostante i provvedimenti tesi a rendere i referti disponibili in FSE, le opportunità di acquisire dimestichezza con lo strumento forse non sono tante. L’esempio più eclatante, in questo senso, è dato dalla Sardegna che registra un costante 100% di accessi al FSE per consultare i referti disponibili. Se però si guarda ai dati assoluti l’entusiasmo scema: l’ultimo aggiornamento disponibile (gennaio 2021) era riferito a un totale di 9.883 referti, un numero davvero esiguo se comparato al totale di 1.651.402 FSE attivi, a meno di non considerare l’ipotesi che in Sardegna la quasi totalità della popolazione goda di salute ottima.

Al cittadino, infine, occorre garantire che i suoi dati sanitari, assolutamente sensibili, siano opportunamente tutelati. Sulla possibilità di negare il consenso ad alimentare il Fascicolo con i referti antecedenti il maggio 2020 – tema emerso all’inizio del 2021 – ancora non si è assistito ad alcuna campagna informativa nazionale, prima condizione posta dal Garante. Né si può considerare sufficiente quanto pubblicato sul sito dell’Autorità nella sezione (solo in italiano) dedicata ad illustrare come e quando il cittadino può scegliere a chi non rendere accessibili i propri dati sanitari, oscurandoli, ad esempio al proprio medico di medicina generale, e tutelare così la propria privacy. Il flusso di dati, però, non scorre sempre come da indicazioni dei cittadini: il Garante ha sanzionato due aziende sanitarie (in Romagna e nella provincia autonoma di Trento) per la violazione del diritto all’oscuramento. In un caso e nell’altro le informazioni (in alcuni casi relative a interruzioni volontarie di gravidanza) erano giunte al medico di medicina generale per l’inadeguata programmazione dei software utilizzati.

Il vero problema, però, è dato dalla vulnerabilità dei sistemi. Agli attacchi informatici eclatanti della Regione Lazio o in Veneto, se ne devono aggiungere migliaia di altri. Il report di Trend Micro per il 2020, riportato dal Garante della Privacy, riferiva di 20.777 attacchi tramite malware e 2.063 attraverso ransomware. A rendere appetibile il comparto sanitario sono la qualità e quantità dei dati che, una volta sottratti, possono essere venduti o diventare oggetto di estorsione con la richiesta di un riscatto. In gioco, però, non è solo la tutela della privacy: ad essere messo a rischio è il funzionamento stesso dei servizi sanitari attaccati. Prestazioni salvavita, visite, esami possono essere intralciati se non impediti da attacchi informatici. Predisporre strumenti adeguati a prevenire gli attacchi rende necessario l’impegno a più livelli. Se in Europa si assiste ai lavori per aggiornare la Direttiva NIS (Network and Information Security dell’Unione), abbinati alle attività dell’ENISA e a livello nazionale si è giunti alla creazione di una specifica Agenzia (D.L. 14 giugno 2021, n. 82), il tema sicurezza informatica pare ancora trascurato ai livelli inferiori, laddove, concretamente, gli attacchi hanno luogo. Mancano risorse umane e finanziarie e, prima ancora, la consapevolezza diffusa tra gli operatori sanitari del rischio cibernetico.


Silenzi assordanti: le mancate risposte sul fine vita


Nonostante il pressante e autorevole invito della Corte costituzionale (Ordinanza 207/2018) e la sua successiva pronuncia (sentenza 242/2019), l’iter parlamentare di una legge sul fine vita non si è concluso nel 2021, anzi. Il dibattito alla Camera dei Deputati, in un’aula mestamente deserta, illustra ancora una volta la forte opposizione di alcuni gruppi parlamentari. Dalle argomentazioni contro la norma pare trasparire la sovrapposizione tra suicidio assistito ed eutanasia attiva, fino a paventare l'annientamento progressivo e inesorabile dei più deboli(16) di stampo nazista. Il disegno di legge esaminato alla Camera è frutto di numerose mediazioni, tra le quali l’obiezione di coscienza per il personale sanitario.

Nel frattempo, è proseguito il percorso di Mario per accedere al suicidio assistito in Italia, con il parere positivo del comitato etico dell’ASUR Marche, giunto dopo una lunga battaglia legale, peraltro non conclusa con questo atto: un mese dopo, a dicembre 2021 Mario era ancora in attesa di una decisione sul farmaco che avrebbe potuto assumere per il suicidio assistito. La descrizione della sofferenza fisica e psicologica acuitasi nel corso degli anni giustifica la denuncia di tortura presentata da Mario. Non è facile sapere quanti si trovino nelle sue condizioni: i dati Inail del 2011 riferivano di circa 70.000 persone, 2/3 delle quali di età inferiore ai 60 anni, con lesioni al midollo spinale e di un numero tra i 1.500 e i 2.000 nuovi casi di para/tetraplegia ogni anno. Dati questi numeri, è possibile che il caso di Mario non sia isolato e che altri abbiano esaurito le energie necessarie ad affrontare la sofferenza. È possibile, anzi, che il numero sia rilevante dato che «L’enorme sviluppo delle tecnologie in medicina, per un verso consente di curare pazienti che fino a pochi anni fa non avrebbero avuto alcuna possibilità di sopravvivenza, e per l’altro in alcuni casi porta anche al prolungamento della vita in condizioni precarie e di grandissima sofferenza»(17), come le persone affette da patologie il cui decorso può rivelarsi insostenibile.

Al momento, chi sperimenta quella grandissima sofferenza può contare sul welfare famigliare, magari allargato alle reti informali, come evidenziato dall’Istat e su una rete per le cure palliative (prevista dalla l. 38/2010) nella quale permangono ampie lacune, un insieme poco coerente con la tutela della vulnerabilità declamata alla Camera.

Data l’attenzione, oratoria, alla sofferenza, va rilevato che sono stati necessari 11 anni e numerosi interventi normativi per giungere alla definizione di un percorso di formazione ad hoc per i medici palliativisti (Decreto MIUR 28/09/21), preceduto dalla l. 77/2020 e altrettanti 11 anni per definire, con gli emendamenti all’art. 35 del DL 73, 25/05/2021, approvati in sede di conversione in legge, il percorso utile a uniformare su tutto il territorio nazionale l’erogazione delle cure palliative. È quindi probabile che si arrivi ad avere i primi specializzati in medicina palliativa nel 2025, anno entro il quale, in teoria, si dovrebbe giungere anche alla piena applicazione della 38/2010. Al 77% dei 543.000 adulti e al 95% dei 35.000 minori che al momento non ricevono queste cure non resta che pazientare.

Nella sua riflessione dedicata alla vulnerabilità il Comitato nazionale di Bioetica auspica il coinvolgimento di ampi strati della popolazione, con la creazione di Spazi etici in cui dare voce e ascolto ai cittadini. In assenza di questi spazi, il dibattito pubblico su questi temi pare comunque interessare una quota significativa della popolazione, se si considera il numero di firme raccolte (oltre 1,2 milioni) nella campagna referendaria per l’eutanasia.

Tra i silenzi assordanti, purtroppo, è da rimarcare quello relativo alle campagne di comunicazione sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento, l. 219/17), pur previste all’art. 4, c. 8: «Ministero della salute, le regioni e le aziende sanitarie provvedono a informare della possibilità di redigere le DAT in base alla presente legge, anche attraverso i rispettivi siti internet». Non risultano, peraltro, relazioni a cura del ministro della Salute sullo stato di applicazione della norma successive alla prima, sebbene all’art. 8 sia prevista una cadenza annuale. Sul sito della banca dati delle DAT, infine, non è reso pubblico il numero di Disposizioni depositate, cosicché risulta quantomeno arduo stabilire quanti cittadini abbiano, concretamente, avuto accesso al diritto. L’ultimo dato ufficiale, contenuto nella relazione al Parlamento del 2019, riferiva di 62.030 DAT depositate presso gli uffici dello stato civile dei Comuni ove risiedono i disponenti. Le DAT possono essere anche depositate presso notai e uffici consolari e presso le strutture sanitarie, esclusivamente però in quelle regioni che ne abbiano regolamentato la raccolta. Di nuovo, si presenta l’applicazione a macchia di leopardo di normative nazionali: la regione Toscana si è attrezzata a differenza, ad esempio, della Lombardia; passando invece al livello dei Comuni, non è insolito riscontrare orari esigui per l’accesso, su prenotazione, all’ufficio demandato al deposito della DAT. Non è, inoltre, chiaro quanto abbia influito l’emergenza Covid sulla procedura di trasmissione delle DAT dai Comuni alla Banca dati nazionale: il Decreto del Ministero della salute 168, 10/12/2019, non prevede alcuna sanzione per chi dovrebbe alimentare la Banca dati, e non svolga il suo compito senza indugio. Dato il quadro, non stupirebbe l’esiguità delle DAT depositate, fosse anche reso pubblico il loro numero.

A chi avesse la sventura di incappare nella condizione di coma vegetativo, senza aver predisposto il proprio biotestamento, rimane lo spiraglio aperto dal caso Samantha D’Incà. Il giudice tutelare ha, infatti, attribuito al padre della giovane il ruolo di amministratore di sostegno, con il potere di richiedere la sospensione delle terapie, a seguito di specifica proposta dei medici e nell’ipotesi di severo aggravamento e di mancata risposta alle cure erogabili o in presenza di rischi di complicanze. L’iter, come si può intuire, è gravoso per chi si incarichi di far rispettare la volontà della persona in condizioni di coma irreversibile. Nel caso di Samantha D’Incà, in coma vegetativo dal 25 dicembre 2020, il procedimento ha richiesto diversi mesi (dal 3 febbraio 2021, data della richiesta a nomina quale amministratore di sostegno depositata dal padre, al 10 novembre 21, data in cui il padre ha assunto il ruolo), nel succedersi di consulenze e pareri.


Cannabis: il potere della confusione


Ancora, sul dibattito relativo alla legalizzazione della cannabis che ha accompagnato la raccolta firme per il referendum si sono addensate le nubi della confusione. L’uso della cannabis fa male? Quanto? A leggere le pagine del volume pubblicato (e ancora accessibile) nel 2014 dal dipartimento Politiche Antidroga, in collaborazione con il ministero della salute, la risposta è inequivocabile: sì, molto. Le informazioni (riprese anche dal sito dell’ISS) sono veicolate come certe e definitive, supportate da studi internazionali. Se, però, si volge lo sguardo ad altre realtà quelle verità incontrovertibili vacillano. Negli Stati Uniti, dove la marijuana continua a essere illegale a livello federale, ma dove diversi stati, a cominciare dal Colorado, hanno legalizzato in varie misure l’uso della cannabis, nell’illustrare i possibili rischi per la salute sono scelte forme dubitative, poiché gli studi sono pochi e le variabili da considerare tante. In Canada, dove possesso, consumo e coltivazione (con precisi limiti) sono consentiti ai maggiorenni dal 2018, gli eventuali rischi sono presentati in modo non allarmistico.

Nella confusione non si prende atto di quanto sia diffuso il consumo di cannabis tra i giovani di 19 anni: secondo l’esperto Fabrizio Faggiano, il 50% l’ha provata almeno una volta, il 35% la usa tutti i mesi. Ignorare, di fatto, questo dato non consente di avviare, tra le altre cose, campagne sulla sicurezza stradale efficaci. L’approccio repressivo o patologizzante di certo non aiuta i giovani ad avere la giusta consapevolezza per un consumo responsabile.

Altro discorso è quello relativo alla cannabis ad uso medico, la cui prescrizione è stata ammessa dal 2006. Dal 2017, con l’avvio dell’esperienza presso lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare Firenze, si è iniziato ad affrontare il tema della produzione in Italia, fino a quel momento totalmente dipendente dall’importazione. Sebbene i quantitativi distribuiti dal SCFM siano aumentati (dai quasi 60 kg del 2017 ai 277,5 kg del 2021), il problema della dipendenza dall’estero permane, data la crescita della domanda: nel 2021 il consumo di cannabis terapeutica registrato dal ministero è stato pari a kg. 1.271,475.

Se, da un lato, è previsto che la produzione italiana aumenti, vista la recente autorizzazione data a tre aziende agricole per il successivo conferimento delle piante ad aziende autorizzate dall'AIFA e dallo stesso Ufficio Centrale Stupefacenti alla produzione industriale di cannabidiolo di estrazione, è però altamente probabile che si ripresenti il problema della insufficiente disponibilità, visto che il fabbisogno stimato per il 2022 è di oltre kg. 2.500. All’insufficiente approvvigionamento si aggiungono poi i problemi dell’ineguale accessibilità alla cannabis terapeutica sul territorio nazionale. Come evidenzia lo studio realizzato per la Camera dei deputati, infatti, «Il DM 9 novembre 2015 subordina la rimborsabilità delle preparazioni magistrali a base di cannabis alle indicazioni emanate dalle regioni e dalle province autonome. Sul punto, si ricorda che solo alcune regioni erogano a carico del SSN la cannabis ad uso terapeutico». Ancora. E, ancora, i residenti in alcune regioni si trovano nella condizione di coltivare in proprio la cannabis con il rischio di subire l’arresto, come accaduto in Calabria. Rimane poi l’alternativa di rivolgersi al mercato illegale, con tutte le incognite legate alla qualità del prodotto.

Infine, i pazienti che assumono cannabis terapeutica dispensata come preparato galenico non possono avvalersi delle ricette elettroniche (dematerializzate) previste invece per i medicinali a base di sostanze stupefacenti per trattare il dolore severo. La mancata ideazione di una procedura digitalizzata per chi ha bisogno di cannabis terapeutica durante la pandemia appare come l’ulteriore ostacolo lungo un percorso già faticoso.


Quando guarire non basta: il diritto all’oblio in oncologia


Ogni anno sono circa 377.000 le persone che ricevono la diagnosi di un tumore. Per un numero crescente di questi malati, grazie all’avanzamento delle terapie, è possibile però arrivare alla guarigione, con un’aspettativa di vita simile a quella di chi non si è mai ammalato. Attualmente si stima in circa un milione il numero di persone guarite.

Eradicato dal corpo, il cancro però si può ripresentare nelle pratiche burocratiche: per accendere un mutuo in banca, stipulare un’assicurazione, adottare un bambino. Per questo motivo i guariti dal tumore, chiedono di accedere al diritto all’oblio. Dopo aver affrontato un percorso fisicamente e psicologicamente doloroso, accompagnato spesso anche da difficoltà finanziarie, la possibilità di giungere al pieno godimento di tutti i diritti di una persona sana parrebbe il giusto compenso. Manca una legge al traguardo.


Note


(1) - Banca dati statistica Inail, dati ricavati query: Infortuni sul lavoro - Denunciati - Totale gestioni (Industria e Servizi, Agricoltura, Conto Stato) - Caratteristiche infortunato: mortali. https://internetws.inail.it/BDSbi/saw.dll?Dashboard&_scid=Bto80CUmko0

(2) - La soglia di povertà assoluta rappresenta il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza. Una famiglia è assolutamente povera se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore a tale valore monetario. Istat

(3) - Risultati ottenuti con calcolatore Istat

(4) - Nel 2020 la spesa per farmaci in fascia C è stata di circa 5,7 miliardi, Rapporto OsMed, pag. 179, cui si rimanda per un’analisi dettagliata sui consumi di farmaci in Italia.

(5) - Elisabetta Todaro, Roberta Rossi, in "RIVISTA DI SESSUOLOGIA CLINICA" 1/2018, pp. 47-68, DOI:10.3280/RSC2018-001003

(6) - Per approfondimenti sul percorso normativo e sul Piano: La normativa di genere in Italia, The Italian Journal of Gender-Specific Medicine, Supplement to Volume 5, Issue 3 – 2019, Il Pensiero Scientifico Editore

(7) - Dato ricavato da http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=42869# , popolazione residente al 1° gennaio per fascia di età

(8) - Strategia Nazionale per le competenze digitali – Primo rapporto di monitoraggio del Piano Operativo, pag. 21

(9) - Per approfondimenti si rimanda a: Posteraro, N., La digitalizzazione della sanità in Italia: uno sguardo al Fascicolo Sanitario Elettronico (anche alla luce del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), Federalismi.it, fascicolo 26/2021

(10) - PNRR, pag. 17

(11) - dati aggiornati al 27/01/2022, fonte: https://www.fascicolosanitario.gov.it/monitoraggio/bm/9

(12) - Dati aggiornati al 31/01/2022, fonte: https://www.fascicolosanitario.gov.it/monitoraggio/bm/5

(13) - Dati aggiornati al 13/07/2018, fonte: https://www.fascicolosanitario.gov.it/monitoraggio/bm/11

(14) - Dati aggiornati al 31/01/2022, fonte: https://www.fascicolosanitario.gov.it/monitoraggio/bm/8

(15) - Dati aggiornati al 31/01/2022, fonte: https://www.fascicolosanitario.gov.it/monitoraggio/bm/8

(16) - On. R. Bagnasco (FI), intervento in aula, 13/12/2021, resoconto stenografico Camera dei deputati

(17) - Comitato Nazionale per la Bioetica, Riflessioni Bioetiche sul Suicidio Medicalmente Assistito, 18/07/2019, pag. 6, https://bioetica.governo.it/media/4310/vr__p135_2019_parere-suicidio-medicalmente-assistito.pdf

Susanna Zambruno Martignetti

Susanna Zambruno Martignetti

(? - 2016)
“QUESTA È UNA COSA CHE FACCIO PER ME”: LA SCELTA DI SUSANNA, AFFETTA DA SCLEROSI MULTIPLA CHE HA DECISO LA VIA DEL SUICIDIO ASSISTITO

Una vita in schiavitù, questo era quello che sentiva Susanna. Una schiavitù a cui è impossibile ribellarsi, catene che non possono essere spezzate, catene che la tenevano prigioniera del proprio stesso corpo. Susanna combatteva contro la sclerosi multipla da ormai 25 anni; era la consapevolezza a farla da padrone nella sua mente, o almeno così sembra a leggere le sue interviste, a chi quel turbine di sentimenti non può nemmeno immaginarlo. Consapevolezza dell’inutilità di qualsiasi tentativo di ribellione alla malattia, e poi consapevolezza dell’impossibilità anche di tentare una via di fuga diversa. La legge non lo permette, persone che non conoscono quelle catene hanno deciso che non si può e non si deve fuggire. Per dignità? Per non offendere niente e nessuno? Chi lo sa.

Susanna non ne poteva più di quelle catene, e la sua determinazione alla fine si rivelò più forte della volontà che altri volevano e vogliono imporre a lei e a quelli che sono oppressi dalla sua stessa schiavitù.

Scelse per sé, scelse ciò che riteneva la via migliore, contro chi avrebbe voluto decidere al posto suo, forse (questo noi non possiamo saperlo) anche contro chi le è stato accanto, comprendendo la sua volontà e dando tutto l’amore che merita una madre, una donna, una combattente, rischiando paradossalmente di subire dure conseguenze una volta portata fino in fondo la sua scelta.

Susanna se ne è andata un 7 marzo, ma per farlo è dovuta andare fino in Svizzera, solo per compiere la propria volontà, sul proprio corpo e sulla propria vita, possibilità che le era stata tolta dalla malattia prima, e dalla legge poi. A chi legge la sua storia senza esserle stato accanto resta un senso di consapevolezza, la consapevolezza della necessità di un diritto, della voglia - forse addirittura del bisogno - di decidere per sé, e quindi dell’impossibilità di decidere per gli altri.