Il punto della situazione: aggiornamenti normativi e interventi previsti dal PNRR per la parità di genere
La legge 162/2021 ha introdotto due importanti novità all’interno del Codice delle pari opportunità (decreto legislativo 198/2006). Innanzitutto ha esteso alle imprese pubbliche e private con oltre 50 dipendenti – prima la soglia era di 101 dipendenti – l’obbligo di redigere un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile rendendo trasparenti, in particolare, i processi di selezione, i meccanismi delle promozioni, le differenze tra le retribuzioni iniziali, il numero delle lavoratrici in stato di gravidanza, le misure per promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, i licenziamenti, l’eventuale presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso, la retribuzione effettivamente corrisposta. Sono previste sanzioni in caso di inadempimento o dichiarazioni mendaci.
Con l’introduzione nel Codice dell’art. 46-bis, la nuova legge dispone, inoltre, a decorrere dal 1° gennaio 2022, l’istituzione della certificazione della parità di genere «al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità». Destinatarie del provvedimento sono le stesse aziende pubbliche e private tenute a presentare il rapporto di cui sopra.
È evidente l’attenzione del Governo verso l’obiettivo di accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e di eliminare le barriere all’accesso e altre forme di discriminazione, più o meno sommerse, nei loro confronti (soprattutto relativamente al gap salariale e alle progressioni di carriera). Ne è testimonianza l’estensione delle fattispecie discriminatorie – introdotta anch’essa dalla legge 162 – alla fase della selezione del personale e a quegli atti di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro che possono porre la lavoratrice in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai colleghi uomini.
Bisognerà capire se queste forme di controllo produrranno risultati concreti o si tradurranno in sterile burocrazia e oneri aggiuntivi gravanti sulle strutture pubbliche preposte alle verifiche. Quel che è certo è che la certificazione di parità costerà 10 milioni di euro. Sono previsti, infatti, dei meccanismi premiali a favore delle aziende private: quelle in possesso della certificazione avranno diritto a sgravi fiscali e a un punteggio aggiuntivo utile ai fini del riconoscimento di aiuti di Stato nell’ambito di progetti europei. Indubbiamente c’è il rischio che l’iniziativa possa essere strumentalizzata da alcune grandi imprese allo scopo di attuare il gender washing, ovvero migliorare la propria immagine mostrandosi “vicine alle donne” senza prendere realmente a cuore la questione della parità di genere.
Il sistema di certificazione della parità fa parte degli investimenti per promuovere l’occupazione femminile compresi nella Missione 5 del PNRR “Inclusione e coesione”. Le misure dedicate alla parità di genere, in realtà, attraversano trasversalmente tutte o quasi le priorità delineate nel piano: creazione di impresa femminile, potenziamento dei servizi educativi per l’infanzia, estensione del tempo pieno a scuola, rafforzamento dei servizi di prossimità e di supporto all’assistenza domiciliare, investimenti in banda larga e connessioni veloci ecc. Tutti interventi che si pongono l’obiettivo di impattare positivamente sulla conciliazione dei tempi di vita e lavoro e sulla riduzione dei carichi di cura tradizionalmente gravanti sulle donne.
In arrivo nuovi strumenti contro la violenza sulle donne
Anche nel 2021 i numeri sui femminicidi si confermano impietosi: secondo i rapporti della CriminalPol, nel 2021, su un totale di 302 vittime di omicidio volontario, sono state uccise 119 donne, di cui 103 in ambito familiare-affettivo. Nel 75% dei casi l’omicida è il partner o l’ex partner.
Degna di nota è la Risoluzione approvata il 16 settembre 2021 dal Parlamento Europeo con cui si promuove l’introduzione della violenza di genere tra i reati che, per gravità e dimensione transnazionale, necessitano di essere combattuti su basi comuni (come già accade, ad esempio, per il traffico illecito di stupefacenti e di armi, la tratta di esseri umani, il terrorismo ecc.). In questi casi l’art. 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea prevede che siano emanate delle apposite direttive al fine di armonizzare le legislazioni degli Stati membri, disponendo norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni.
Sul versante italiano si segnala l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del disegno di legge che va a modificare la normativa penale vigente, soprattutto con l’intento di rafforzare la tutela delle donne nella fase immediatamente successiva alla denuncia. Queste sono le principali novità:
• il PM può disporre il fermo in presenza di gravi indizi di maltrattamenti, lesioni personali e stalking; si introduce l’obbligo di arresto in flagranza in caso di violazione del divieto di avvicinamento alla vittima; si prevede l’attuazione anticipata della “vigilanza dinamica” fin dal momento successivo alla denuncia o querela;
• l’Autorità giudiziaria può applicare misure di prevenzione personali ai soggetti indiziati dei reati di violenza sessuale, omicidio, deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso e ai soggetti che, già ammoniti dal Questore, risultino indiziati dei delitti di percosse, lesioni, violenza privata, minacce aggravate, violazione di domicilio e danneggiamento commessi nell’ambito di violenza domestica;
• si applica una misura coercitiva più grave nel caso in cui il giudice abbia disposto l’allontanamento dalla casa familiare e l’imputato neghi il consenso all’uso del braccialetto elettronico come modalità di controllo dei suoi spostamenti; la misura cautelare viene revocata e sostituita con la custodia cautelare in carcere in caso di manomissione del braccialetto;
• il Questore può applicare l’ammonimento anche per condotte considerate sintomatiche rispetto a situazioni di pericolo correlate alla violenza domestica (come minaccia aggravata, violenza privata o violazione di domicilio).
Il disegno di legge, illustrato in conferenza stampa dalle Ministre del Governo e presentato al Senato, ha suscitato reazioni contrastanti. Da un lato, è stato apprezzato lo sforzo di proteggere maggiormente la donna dal pericolo che l’uomo maltrattante non rispetti i provvedimenti disposti dal giudice (con le conseguenze che, purtroppo, riscontriamo quasi quotidianamente nei casi di cronaca); dall’altro, è stato criticato l’utilizzo quasi esclusivo di strumenti repressivi per contrastare reati che sono espressione di un fenomeno strutturale e di matrice culturale e che, dunque, richiede un approccio basato innanzitutto sulla forma di prevenzione più efficace: la cultura del rispetto delle libertà delle donne. La costruzione di relazioni equilibrate tra uomini e donne andrebbe favorita fin dalla prima infanzia mediante corsi di educazione all’affettività rivolti alle scuole. Fondamentale è fornire adeguata formazione anche al personale sanitario e giudiziario che si trova a gestire i casi di violenza e maltrattamenti.
Maltrattamenti e violenza sulle donne con disabilità
Come messo in evidenza anche in altre occasioni, le donne con disabilità sono esposte a rischio doppio di subire atti di violenza e maltrattamenti e, in caso di denuncia, incontrano ostacoli anche nell’accesso alla tutela giudiziaria e all’assistenza legale (pensiamo alle difficoltà di comunicazione delle donne sordocieche, sorde, con disabilità intellettive o psicosociali). Non esistendo dati ufficiali, i risultati del progetto VERA (Violence Emergence, Recognition and Awareness), realizzato da FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) in collaborazione con Differenza Donna, giunto alla seconda edizione, danno un’idea – seppur imprecisa dal punto di vista del campione statistico – della misura del fenomeno.
Il 62,3% delle donne intervistate ha dichiarato di aver subito nel corso della vita almeno una forma di violenza (51,4% psicologica, 34,6% sessuale, 14,4% fisica, 7,2% economica). L’autore è quasi sempre un familiare o un amico o, addirittura, la figura deputata alla cura professionale (badante, assistente sociale, terapista, insegnante ecc.). L’indagine mette in evidenza come violenza di genere e violenza abilista spesso si intersecano moltiplicando i loro devastanti effetti: l’autore è, infatti, nel 47% dei casi un uomo e nel 45% una donna.
Un dato significativo è quello che riguarda circa un quarto delle intervistate, le quali, non hanno mostrato percezione della violenza, pur avendola subita. Anche l’atteggiamento di fronte agli abusi e ai maltrattamenti esprime tutte le difficoltà che comporta l’essere donna con disabilità: solo il 46,5% ha avuto la forza o gli strumenti per reagire (il 6,7% denunciando alle forze dell’ordine e il 3,5% chiedendo aiuto ad un centro antiviolenza, segno che le strutture di supporto e tutela legale al momento hanno un ruolo molto marginale perché difficilmente raggiungibili o per carenze organizzative).
Diritti digitali e questione di genere (digital gender divide)
Una questione che possiamo considerare decisiva – anche in tema di libertà e autodeterminazione femminile – attiene ai “diritti digitali”, intesi nel duplice senso di diritto di accedere alla rete e alle tecnologie digitali e di poter consultare, ed eventualmente utilizzare, dati e informazioni di interesse pubblico. Dalla capacità delle donne di utilizzare le tecnologie della comunicazione e dell’informazione più diffuse dipende la possibilità di porsi in condizioni di parità rispetto agli uomini nello svolgersi della vita quotidiana e nel cogliere le opportunità che il mondo offre dal punto di vista culturale, formativo, lavorativo, sociale, politico ecc.
Questo proposito è confluito all’interno della Dichiarazione dei diritti in Internet elaborata nel 2015 dalla Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet, che all’art. 5, comma 5, dispone: «Le Istituzioni pubbliche garantiscono i necessari interventi per il superamento di ogni forma di divario digitale tra cui quelli determinati dal genere, dalle condizioni economiche oltre che da situazioni di vulnerabilità personale e disabilità». Il digital gender divide è infatti una delle forme di disparità tra uomo e donna: si calcola che nel mondo una donna su cinque non abbia accesso a internet, a causa di differenze dovute alle condizioni socio-economiche presenti in talune aree svantaggiate ma anche al perdurare di pregiudizi che escludono la componente femminile della popolazione dall’apprendimento delle materie scientifiche e delle abilità tecnologiche.
In Italia, le recenti indagini di Eurostat certificano la presenza di un gap di genere “diversificato”. Come si evince dal grafico qui riportato, prendendo in esame la fascia 25-29 anni (anagraficamente costituita da nativi digitali, quindi persone che dovrebbero essere abituate a convivere da sempre con la tecnologia), notiamo che le donne italiane hanno un leggero vantaggio rispetto agli uomini in quasi tutte le abilità considerate, specialmente quelle che attengono all’area della creazione di contenuti digitali per la soddisfazione di un bisogno o per uno scopo puramente creativo. Al contrario, manifestano lacune quando si tratta di gestire le impostazioni di un software o di usare un linguaggio di programmazione (rispettivamente, solo il 20% e l’8% delle intervistate ha dichiarato di possedere queste competenze di tipo avanzato). Confrontando i dati nazionali con quelli relativi alla media europea, notiamo che questi numeri rispecchiano una carenza generalizzata degli italiani nelle abilità informatiche, a prescindere dal genere.
Quali vantaggi potrebbero prodursi eliminando il digital gender divide? Sicuramente la popolazione femminile sarebbe agevolata nell’accesso all’istruzione e formazione permanente e al mercato del lavoro (soprattutto nei settori STEM, affini all’area tecnologica e scientifica). La rete, inoltre, è il luogo in cui milioni di donne in tutto il mondo si incontrano, raccontano le proprie esperienze e portano avanti battaglie personali e collettive: ne sono testimonianza gli hashtag coniati da svariati movimenti femminili per protestare contro gli abusi o per promuovere le loro istanze (ad esempio, #metoo, #nonunadimeno, #westandiwithAfghanWomen).
Come ha sottolineato Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat e Chair del Women20 (engagement group interno al G20 dedicato alle questioni di genere), se le donne sono poco rappresentate nel mondo della tecnologia, come lavoratrici e soprattutto nei ruoli decisionali, c’è il rischio che, attraverso l’intelligenza artificiale e la programmazione degli algoritmi, possa perpetuarsi il meccanismo di trasmissione degli stereotipi di genere e l’esclusione delle donne da tutto ciò che è implicitamente governato e impostato “al maschile”.
Altro aspetto collegato ai diritti digitali è l’accesso ai dati e alle informazioni come patrimonio indispensabile per la tutela dei diritti delle donne e per lo studio delle azioni pubbliche in un’ottica di genere.
Come evidenziato durante il convegno “Dati per contare”, l’Italia, nonostante i costanti progressi, attualmente si trova al 14° posto (al di sotto della media UE) nella classifica sulla parità di genere curata dall’EIGE. Tuttavia, giungere a una stima attendibile è arduo, dal momento che oltre la metà dei 72 indicatori individuati dall’ONU per misurare le politiche di genere in tutto il mondo non sono verificabili nel nostro Paese per l’assenza di dati (e solo il 21% di quelli disponibili può essere ritenuta di alto livello).
Il cosiddetto data feminism si pone come rimedio alla diseguale distribuzione di potere che induce una produzione e un utilizzo di dati non neutrale dal punto di vista del genere. Spesso si tratta di iniziative nate dal basso per sopperire alla mancanza di dati ufficiali. Un esempio è il progetto “Obiezione respinta”, sorto con l’obiettivo di creare una mappa dei luoghi in cui le donne possono usufruire di servizi e informazioni su interruzione di gravidanza, pillola del giorno dopo, libertà sessuale ecc. e, al contrario, delle strutture in cui, a causa di abusi o dell’obiezione di coscienza, questi diritti sono negati.
Diritto all’informazione: lo studio dei dati sulle politiche pubbliche secondo un approccio di genere
Spesso non si ha neanche consapevolezza dell’esistenza di un problema che impatta sul mondo femminile poiché i dati sono disponibili solo in formato aggregato (non suddivisi per genere). Inoltre, molte volte l’ideazione di una politica risente di una distorsione di base, ovvero il considerare come esigenze femminili esclusivamente quelle associate ai ruoli di cura, con la conseguenza di confonderle con la domanda di servizi sociali destinati a bambini, persone non autosufficienti ecc. Occorrerebbe piuttosto raccogliere e studiare i dati basandosi sulle donne in quanto persone, affrancandole dai ruoli sociali e familiari.
In tal senso si colloca il bilancio di genere: strumento non solo economico-finanziario, nato grazie alla sensibilità di alcune amministrazioni locali e introdotto in via sperimentale a livello statale «per la valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sulle donne e sugli uomini, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito, anche al fine di perseguire la parità di genere tramite le politiche pubbliche, ridefinendo e ricollocando conseguentemente le risorse, tenendo conto anche dell’andamento degli indicatori di benessere equo e sostenibile» (legge 196/2009, art. 38-septies, comma 3-bis). Ciò si sostanzia in una riclassificazione delle spese, evidenziando quelle dirette a ridurre le diseguaglianze di genere o a favorire le pari opportunità e quelle che potrebbero avere un impatto, anche indiretto.
Ad oggi l’applicazione del bilancio di genere a livello non statale è rimessa all’iniziativa delle singole amministrazioni: il disegno di legge presentato nel 2020 per renderlo obbligatorio, dopo una fase sperimentale, presso gli enti territoriali con popolazione superiore a 5.000 abitanti non è stato ancora discusso in Parlamento.
Procreazione Medicalmente Assistita: esiste un diritto alla maternità? Gli ostacoli all’attuazione della L. 40/2004 tra turismo procreativo e il miraggio dei nuovi LEA
Quando si parla di libertà e autodeterminazione femminile non si può ignorare la questione dei diritti riproduttivi. Come enunciato dalla Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo del Cairo (1994), la salute riproduttiva è uno stato di benessere completo fisico, mentale e sociale che riguarda tutte le questioni relative al sistema riproduttivo, le sue funzioni e processi. In particolare, per le donne ciò implica, tra l’altro, il diritto di decidere liberamente e senza discriminazioni, coercizioni o violenza se mettere al mondo dei figli o meno, di avere le informazioni e i mezzi necessari per realizzare la propria scelta, di accedere a servizi sanitari che garantiscano di prevenire e trattare le condizioni di infertilità, di vivere la gravidanza e il parto in sicurezza.
Si stima che in Italia circa il 15% delle coppie si confronti con problemi di infertilità. Per molte di queste persone, l’unico modo di concepire è ricorrere ai benefici offerti dal progresso scientifico.
Secondo la più recente Relazione del Ministro della salute al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 40/2004 (Norme in materia di Procreazione Medicalmente Assistita), le coppie che in Italia hanno fatto ricorso alla PMA nel 2019 sono state 78.618 (in costante aumento dal 2014) e i bambini venuti al mondo grazie a queste tecniche sono stati 14.162 (il 3,4% dei nati vivi). Questi numeri sono sottostimati in quanto non considerano le coppie e i single italiani che si rivolgono ai centri PMA esteri. Purtroppo, pur conoscendo la rilevanza del cosiddetto “turismo procreativo”, attualmente non siamo in grado di quantificarlo per mancanza di dati ufficiali. Ciò che è certo è che l’Italia in tema di fecondazione assistita, in particolare quella di tipo eterologo (in cui si utilizzano gameti donati), è ancora indietro rispetto ad altri Paesi europei e, quindi, accedervi a volte è arduo o eccessivamente oneroso.
Innanzitutto, le condizioni alle quali si può ricorrere alla PMA sulla base della legge 40 sono molto rigorose. Precisamente sussistono un requisito di tipo oggettivo («qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità») e uno di tipo soggettivo (sono ammesse al trattamento solo «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi»). Le tecniche sono suddivise in tre livelli, ai quali si accede secondo un principio di gradualità in relazione alla complessità e invasività del trattamento (IUI, FIVET e ICSI).
Il divieto, che compariva nel testo originario, di praticare la fecondazione eterologa è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza della Corte Costituzionale n. 162 del 2014. In seguito a questa storica pronuncia, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha approvato, allo scopo di colmare il vuoto normativo creatosi (il Parlamento non ha ancora provveduto a modificare la legge), un documento di indirizzo che permettesse «di rendere immediatamente esigibile un diritto costituzionalmente garantito su tutto il territorio nazionale», il quale sarebbe stato poi recepito dalle singole Regioni.
Un altro importante passaggio è avvenuto con l’inserimento della PMA (omologa ed eterologa) nei livelli essenziali di assistenza (LEA) garantiti dal Servizio Sanitario Nazionale (DPCM del 12/01/2017). Il Ministero della salute (circolare del 06/11/2017 n. 35643-P) ha poi precisato che l’erogazione delle prestazioni è subordinata all’approvazione del decreto di fissazione delle relative tariffe (in mancanza, restano in vigore le disposizioni approvate dalle singole Regioni) e che la possibilità di usufruire delle prestazioni al di fuori della Regione di residenza è assicurata solo in conformità a disposizioni regionali. Questo “ingorgo” normativo fa sì che ogni Regione segua proprie regole e politiche organizzative.
Secondo i dati della sopra citata Relazione, in Italia i centri PMA censiti alla data del 31 gennaio 2021 e iscritti nel Registro Nazionale PMA sono 328: 99 di questi sono pubblici, 19 privati convenzionati e 210 privati. Tali numeri forniscono un primo inquadramento del problema: nel nostro Paese la fetta più grande della “torta” è nelle mani dei privati. Di conseguenza, le coppie costrette a rivolgersi a queste strutture sostengono costi elevati, soprattutto per la PMA di II e III livello (mediamente dai 4.000 ai 7.000 euro); cifre che, in caso di insuccesso, si ripropongono nei cicli di trattamento successivi. Al contrario, la quota di compartecipazione richiesta dai centri pubblici o convenzionati si aggira mediamente sui 500 euro (ma, in caso di eterologa, bisogna aggiungere la spesa per l’approvvigionamento dei gameti e il costo lievita non poco).
In secondo luogo, come si evince dalla tabella sopra riportata, la distribuzione dei centri sul territorio nazionale è fortemente disomogenea, comportando una conseguente discriminazione fondata sulla regione di residenza: chi vive in Lombardia, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia, per esempio, può contare su un’ampia scelta di centri; al contrario, ci sono aree in cui il numero è nettamente insufficiente persino considerando il rapporto con la popolazione.
Inoltre, a cinque anni dall’inserimento nei LEA, esistono ancora delle regioni nelle quali è impossibile trovare un centro in cui poter praticare la fecondazione eterologa (Valle d’Aosta, Liguria, Marche, Molise, Basilicata e Sardegna), secondo quanto riporta il Ministero per il 2019.
La carenza di strutture pubbliche si riflette anche sulle liste di attesa che possono arrivare fino a due anni. Considerato che la maggior parte delle coppie perviene alla fecondazione assistita dopo aver tentato a lungo con metodi naturali (l’età media delle donne è al di sopra dei 35 anni per le tecniche di II e III livello; 41,6 anni nel caso di eterologa con donazione di ovociti), è facile intuire che la tempestività del trattamento è un fattore chiave. In certi casi, la rigida applicazione del principio di gradualità può determinare un notevole allungamento dei tempi.
Le differenze tra regioni comportano un ulteriore elemento discriminatorio relativamente al numero massimo di cicli di PMA che è possibile effettuare nelle strutture pubbliche e al limite di età superato il quale la donna è esclusa da ogni tipo di trattamento. Eccetto le donne lombarde, che hanno a disposizione un numero di tentativi a discrezione dei vari centri, tutte le altre possono ricorrervi da 3 a 6 volte. Per quanto riguarda i limiti di età, anch’essi variano a seconda della regione (43, 44 o 46 anni non compiuti): le più penalizzate sono le umbre che dal 42° compleanno non possono più accedere alla PMA, mentre le venete – unico caso in Italia – possono beneficiarne fino ai 50 anni non compiuti.
Ricordiamo che la legge 40 e le relative Linee guida non stabiliscono un limite preciso ma si riferiscono all’età «potenzialmente fertile» e prescrivono che sia il medico, in scienza e coscienza, a valutare caso per caso quale tecnica sia più idonea a seconda della condizione patologica e/o fisiologica accertata. Per esempio, qualora la donna, non disponendo di propri «gameti competenti», si trovi in uno stato di sterilità comprovata, il trattamento più indicato è una fecondazione eterologa con donazione di ovociti. Quando questa esigenza non trova una risposta in Italia, le coppie che possono permetterselo economicamente si rivolgono ai tanti centri PMA esteri.
Lo stesso documento della Conferenza delle Regioni si contraddice affermando in un primo momento che sia rilevante soprattutto avere «una buona salute per affrontare una gravidanza» e che «su suggerimento delle Società Scientifiche, si sconsiglia comunque la pratica eterologa su donne di età >50 anni per l’alta incidenza di complicanze ostetriche», salvo poi proporre come età massima i 43 anni non compiuti, motivando la restrizione con ragioni di natura meramente finanziaria. Sul tema è intervenuto il Consiglio di Stato (sentenza del 24/11/2020 n. 7343) che, esprimendosi contro una delibera della Regione Lombardia che estendeva anche all’eterologa lo stesso limite di 43 anni previsto per l’omologa, ha affermato che sia profondamente lesivo del diritto alla salute limitare l’accesso alla PMA eterologa in assenza di una solida base scientifica che comprovi l’inefficacia del trattamento o un aumento significativo dei rischi per le donne di età inferiore ai 50 anni, solo perché con ciò si otterrebbe un risparmio di spesa.
Un altro importante fattore che incentiva il turismo procreativo è l’estrema difficoltà a reperire in loco donatori di seme e donatrici di ovociti, con la conseguenza di rendere impraticabile l’utilizzo cosiddetto “a fresco”, più efficace rispetto all’impiego di gameti congelati perché provenienti da banche estere.
I dati indicati nella Relazione del 2021 sono eloquenti: oltre il 90% dei gameti donati è importato (soprattutto dalla Spagna). Il reperimento di ovociti, in particolare, è piuttosto difficoltoso in quanto la donatrice, sottoposta prima a stimolazione ormonale e poi al successivo prelievo, subisce un innegabile disagio durante tutta la procedura. Per questo motivo, in altri Paesi (ad esempio la Spagna) è previsto un indennizzo in denaro che compensa il sacrificio patito e le giornate lavorative perse. In Italia, invece, la donazione di tessuti e cellule è gratuita per espressa disposizione normativa (art. 12 del decreto legislativo 191/2007). Ciò fa sì che non esista il benché minimo incentivo a donare i propri gameti.
Di fatto l’Italia non è in grado di erogare i trattamenti di fecondazione eterologa inclusi nei LEA, quindi essenziali, se non attraverso l’unica modalità di approvvigionamento possibile: l’importazione dall’estero delle cellule riproduttive. Appare una contraddizione, perciò, il fatto che sia vietato elargire un equo indennizzo alla persona donatrice – in quanto sarebbe considerata una forma di commercializzazione eticamente inaccettabile – ma contemporaneamente le aziende sanitarie regionali dispongano procedure di gara per l’acquisto di gameti a prezzo di mercato, come avviene per tanti altri beni.
Un altro elemento che incide significativamente è anche il pregiudizio nei confronti della PMA (soprattutto di quella eterologa), ritenuta ancora una pratica così “eticamente sensibile” che è incauto anche solo parlarne. È evidente che sia una questione anzitutto culturale, legata a motivazioni di tipo religioso, alla diffidenza nei confronti della scienza e anche al bisogno – mai sopito – di esercitare un controllo sociale e politico sulle scelte procreative e quindi sul corpo delle donne. Ne è testimonianza l’unica campagna informativa che si ricordi, promossa nel 2015 dall’allora Ministra della salute Beatrice Lorenzin, fondata su un discutibile terrorismo psicologico sicuramente non rispettoso di scelte rigorosamente private (tra gli slogan: “Il rinvio alla maternità porta al figlio unico. Se arriva.”).
Un altro aspetto correlato è la possibilità, riconosciuta dall’art. 16 della legge 40 al personale sanitario e ausiliario, di avvalersi dell’obiezione di coscienza per non applicare le tecniche di PMA: essendo la norma rimasta immutata anche dopo la pronuncia della Corte Costituzionale del 2014, ad oggi chi accettasse di praticare la sola fecondazione omologa astenendosi nel caso dell’eterologa (la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia ha presentato una proposta in tal senso) o dell’esecuzione della diagnosi preimpianto sugli embrioni, non potrebbe esercitare tale opzione una volta per tutte ma solo sollevare e revocare l’obiezione di volta in volta, previa dichiarazione. Non si comprende come mai vi sia un totale mistero (la Relazione, infatti, ignora completamente l’argomento) sulla percentuale del personale obiettore operante nei centri e ci si domanda se, per aggirare una procedura non proprio agevole, esista il rischio che possano essere velatamente osteggiate le pratiche di PMA non gradite al momento di prescrivere la tipologia di trattamento più adatta alla paziente.
In conclusione, esiste un diritto alla maternità? E, se sì, questo potrebbe essere violato da una normativa nazionale inadeguata e lacunosa e che lasci troppi margini di discrezionalità alle scelte politiche (e finanziarie) delle singole Regioni? Nella storica sentenza del 2014 la Corte Costituzionale ha affermato che la scelta di avere dei figli «costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi» e che «l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA […], possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia». La scelta di formare una famiglia con figli non dovrebbe, inoltre, essere un privilegio riservato solo alle persone più abbienti. Esiste, quindi, un fondamento giuridico – seppur indiretto – negli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e questo è sufficiente per rendere necessaria una revisione della legge 40 e una piena attuazione dei LEA in tutto il territorio nazionale. Nel silenzio assordante del Parlamento, restiamo in attesa di risposte che, speriamo, non tardino ad arrivare.
Franca Viola
Siamo nel 1965 ad Alcamo, in Sicilia.
Franca ha diciassette anni ed è, come potete vedere dalla foto, una ragazza bellissima. La ragazza più bella del paese. Filippo Melodia, nipote di un boss locale, la brama da tempo e decide di rapirla così da averla tutta per sé.
Sì, perché in quel 1965 in Italia l'articolo 544 del codice penale prevede che i reati di rapimento e stupro si possano estinguere con un matrimonio riparatore. Il violentatore non paga per i suoi crimini e la vittima salva il proprio onore, in obbedienza a un codice morale che definire squallido è niente. Il 26 dicembre, Melodia con l'aiuto di dodici sgherri irrompe nella casa dei Viola, malmena la madre, rapisce la ragazza e suo fratello di otto anni. Il piccolo viene presto rilasciato mentre Franca viene stuprata e segregata per otto giorni in un casolare.
A Capodanno il padre di Franca fu contattato dai parenti di Melodia per la cosiddetta "paciata", un incontro in cui venne informato che la figlia non era più "illibata" e furono stabiliti i dettagli del matrimonio riparatore. Un matrimonio che però né Franca né suo padre erano disposti ad accettare. Perché Franca aveva deciso, finalmente, che si poteva dire no al matrimonio riparatore: in questa battaglia ebbe il supporto della sua famiglia. Il padre finse quindi di accettare la proposta e chiamò la polizia che il due gennaio fece irruzione nel casolare arrestando Melodia. Seguì un processo che condannò lo stupratore a undici anni di carcere e soprattutto dimostrò quanto fosse vergognosa la legislazione nell'ambito del diritto di famiglia. Bisognerà attendere addirittura il 1981 perché il parlamento italiano si degni di cancellare gli articoli del codice penale relativi al delitto d'onore e al matrimonio riparatore. Franca e la sua famiglia furono a lungo emarginate dall'intera comunità in cui vivevano, ma ebbero la forza di non piegarsi a un codice morale vergognoso. La giovane in seguito si sposerà con Giuseppe, l'uomo che amava e ama ancora.
Oggi ha due figli adulti e una nipote bellissima come lei.
Continua a essere una donna coraggiosa e libera e a combattere per quello in cui crede.