Precariato e povertà del lavoro durante e dopo la bufera della Pandemia
“Dignità è contrastare le povertà, la precarietà disperata e senza orizzonte che purtroppo mortifica le speranze di tante persone”.
Il punto della situazione
Nel suo discorso di insediamento del 2 febbraio 2022 il Presidente Mattarella nel richiamare la centralità della dignità della persona e dei cittadini come guida dell’azione politica ha fatto esplicito riferimento al necessario contrasto della precarietà del lavoro.
In effetti soltanto il 35% delle forze di lavoro in Italia dispone di un contratto di lavoro prevalentemente stabile e a tempo pieno. Il restante 65% è composto sia da persone che non cercano e non sono disponibili a lavorare a tempo pieno ma che dispongono di un reddito sufficiente a garantirsi un’esistenza relativamente sicura sia da chi si trova in condizioni di lavoro precario o di disoccupazione.
Facendo una stima di massima sulla base dei dati diffusi periodicamente da Istat e da una serie complessa di ricerche sul campo si può valutare che un insieme compreso tra 7 e 9 milioni di persone nel nostro Paese si trova in una condizione lavorativa a bassa o nulla tutela.
La pandemia ha ulteriormente aggravato ed esteso il fenomeno e neanche la ripresa economica che si è verificata nel 2021 ha portato benefici e miglioramenti tangibili. Nel corso della Pandemia si sono persi quasi 700 mila posti di lavoro e il recupero che si è registrato nel 2021 non ha colmato questo gap. Infatti nel terzo trimestre del 2021 il numero di occupati complessivo era ancora di 350 mila unità inferiore a quello registrato a fine 2019. Va poi ricordato che buona parte dei contratti aperti nel 2021 sono stati a tempo determinato e parziale.
La riduzione dei tassi di attività ha riguardato in maniera particolare donne e giovani allargando tra loro ulteriormente l’area della precarietà.
Questo insieme di fattori si combina con l’aumento sempre più costante dei lavoratori poveri: secondo i dati recentemente diffusi da Eurostat il nostro Paese è al terzo posto in Europa per incidenza di working poors.
La perdita progressiva di reddito dei lavoratori e la recrudescenza della precarietà si combina con l’incremento delle disparità e delle diseguaglianze: in media l’1% che sta in cima alla piramide sociale dispone di un reddito medio 20 volte superiore a quello di ogni singolo cittadino italiano.
Con la diffusione della pandemia è cresciuto anche il numero di persone che si trovano in condizioni di povertà assoluta, dopo la lieve riduzione che si era realizzata nel 2019 a seguito dell’introduzione del reddito di inclusione (REI) e del reddito cittadinanza. Inoltre le prime stime pubblicate da Istat relative al 2021 rendono il quadro di una situazione immutata.
L’introduzione del Reddito di Cittadinanza e del Reddito di Emergenza, sia pur con i limiti sottolineati da più parti, e nella loro scarsa efficacia sul fronte dell’inclusione lavorativa, hanno comunque consentito a circa 4 milioni di persone di non cadere in una situazione di estrema e conclamata indigenza. Si tratta di misure parziali che andrebbero rafforzate e ampliate, accompagnate da politiche più efficaci di contrasto all’esclusione e alla marginalizzazione sociale che non vanno tuttavia abolite. In questo senso, costituiscono una buona base su cui lavorare le linee guida proposte recentemente dalla Caritas, che vengono di seguito riprese in questo nostro capitolo.
Infine è necessaria una riflessione sul fenomeno delle “grandi dimissioni” che sta riguardando anche il nostro Paese. Nel primo semestre del 2021 sono più di un milione le persone che si sono dimesse volontariamente dal lavoro.
Di fatto se l’occupazione non garantisce più, di per sé, l’accesso a un reddito adeguato per condurre un’esistenza dignitosa, il fenomeno delle dimissioni che si sta presentando diffusamente ci porta a ipotizzare che per molte persone il lavoro stesso sia diventato una gabbia da cui liberarsi.
Chi lavora e chi no e chi si trova in condizioni lavorative non tutelate
“Dignità è contrastare le povertà, la precarietà disperata e senza orizzonte che purtroppo mortifica le speranze di tante persone”.
Con queste parole il Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento del 2 febbraio 2022 ha evocato in maniera estremamente chiara l’articolo 26 della Costituzione:
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
Vogliamo quindi partire proprio concentrando la nostra attenzione sul richiamo alla condizione di precariato e alle crescenti disparità della distribuzione del reddito contenute del discorso del Presidente per valutare la situazione e per misurare, in questa fase, se e come viene garantita un’esistenza libera e dignitosa attraverso il lavoro per i cittadini che vivono nel nostro Paese.
Innanzitutto, proviamo a fare un esercizio sui dati relativi alle diverse condizioni lavorative degli italiani per capire meglio le dimensioni e le caratteristiche dell’accesso al lavoro e al reddito e per ricostruire al meglio la dimensione e la diffusione della sofferenza economica, dell’insicurezza e delle condizioni di precariato.
Lo schema ad albero semplificato nel quale vengono riportati i valori relativi alle dimensioni delle diverse condizioni lavorative, ci consente una prima verifica sul numero di persone che si trovano in condizione di lavoro prevalentemente stabile e a tempo pieno: sono circa 18 milioni sommando lavoratori dipendenti e autonomi a tempo pieno ed escludendo gli oltre 700 mila sottoccupati stimati da Istat. Questo insieme rappresenta il 35% della delle forze di lavoro.
Volendo poi escludere l’intero insieme di coloro che, secondo le stime Istat non cercano e non sono disponibili al lavoro (ma in questo insieme si trovano si trovano anche i 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, i lavoratori sfiduciati e altre persone che comunque si trovano in questa condizione non per scelta ma per necessità) si ottiene una proporzione del 60%.
Di conseguenza ciò significa che il 40% delle persone che si trova in una qualche condizione lavorativa non sufficientemente stabile o di disoccupazione, molto probabilmente non dispone di un reddito da lavoro che gli consenta di sostenere in maniera autonoma la propria esistenza. Questo insieme, però, di per sé non significa che si tratti esclusivamente di lavoratori poveri o precari, tra essi ci sono molte persone che non si trovano in condizioni di necessità e che comunque, disponendo di altre risorse economiche, possono permettersi di dedicare soltanto una parte non prevalente del proprio tempo al lavoro.
Va considerata critica con ragionevole certezza la condizione degli oltre 3 milioni di lavoratori a part time involontario e sottoccupati, dei 2,5 milioni di disoccupati, di una parte consistente degli oltre 3 milioni di persone definite come appartenenti alla fascia grigia di inattività e di coloro che si trovano nell’insieme dei 3,2 milioni di unità di lavoro non regolare, stimate da Istat nelle ricerche periodiche che conduce sull’economia sommersa.
Facendo una stima grossolana si ottiene quindi un valore compreso tra i 7 e i 9 milioni di persone che si trovano in una situazione lavorativa a bassa o nulla tutela. In questo insieme vanno anche considerati almeno la metà dei circa 500 mila lavoratori autonomi con un solo committente che possono essere considerati a tutti gli effetti false partite IVA e la metà del milione di tirocinanti che ogni anno non ottengono un contratto di lavoro a seguito di tale esperienza.
Una valutazione di massima dell’evoluzione nel tempo dell’area della precarietà, che si può ricavare dai dati ufficiali periodicamente rilevati da Istat, può essere stimata attraverso i numeri relativi ai lavoratori che si trovano in condizione di sotto occupazione e di part time involontario.
Tale condizione non solo non tende a diminuire ma è cresciuta negli ultimi due anni di 200 mila unità.
Deve poi, in particolare, destare preoccupazione l’andamento relativo alle persone con titolo di studio elevato e in possesso di un titolo universitario: complessivamente tra il 2015/2020 il numero di persone sottoccupate e in part-time involontario in possesso di un titolo di studio superiore si è incrementato del 18%.
In pratica quello che risulta evidente è che progressivamente l’investimento in istruzione e formazione garantisce sempre meno l’accesso a posizioni lavorative stabili.
In pratica il lavoro oltre a diventare meno garantito per tutti tende a diventare anche sempre più povero.
Nel 2021 le condizioni di sofferenza non diminuiscono
La pandemia e i lockdown nel 2020, che avevano colpito in maniera principale chi era occupato in modo saltuario e i titolari di contratti di lavoro atipici e a termine, hanno contribuito ad allargare la forbice tra lavoratori coperti da una rete di protezione sociale e tutti gli altri.
Per molti cittadini con impieghi irregolari in attività in cui non è possibile alcun tipo di lavoro “da remoto”, la pandemia ha coinciso con la sospensione, la perdita o una riduzione considerevole delle proprie fonti di reddito.
Nel corso della Pandemia e nonostante il blocco dei licenziamenti, nel 2020 si erano persi 682 mila posti di lavoro È importante sottolineare che il 52,3% è costituito da donne che, invece, rappresentano solo il 41% del totale degli occupati, e il 55% è costituito da giovani tra i 15 e i 34 anni, giovani-adulti che pesano sul totale degli occupati appena per il 21,2%.
La pandemia ha dunque acuito le caratteristiche di un mercato del lavoro, già fortemente disuguale in termini di genere e di età, allargando inoltre il divario tra lavoratori più o meno tutelati. Molte delle posizioni chiuse nel 2020 riguardavano, infatti, lavori precari.
Anche l’attività dello smartworking, iniziato nella primavera 2020, ha amplificato le disuguaglianze sociali, in primo luogo tra chi ha potuto beneficiare di tale modalità di lavoro e chi no. In Italia ad aver lavorato più spesso da casa sono state soprattutto le donne (23,6% in confronto al 16,3% degli uomini), gli occupati con più di 35 anni (20,5% in confronto al 14,8% dei più giovani), gli italiani (21 contro il 4% degli stranieri), i residenti nel Centro e del Nord (21,9 e 20,6 rispetto al 15,0% nel Mezzogiorno). (1) Molto rilevanti sono poi le differenze per livello di istruzione: ha potuto operare in modalità agile il 42,5% dei laureati, il 17,6% dei diplomati e solo il 3,4% di chi possiede la licenza media.
Pur non disponendo ancora di dati consolidati su quanto è successo nel 2021, non si può affermare che la situazione sia significativamente migliorata nonostante la riapertura di molte filiere e l’impatto di alcune misure governative per il rilancio di diversi settori produttivi, in particolar modo di quello delle costruzioni e dei lavori pubblici.
Infatti, se è pur vero che si è registrato un incremento complessivo rispetto al 2020 del numero degli occupati, tale incremento non ha consentito di recuperare appieno i livelli che si registravano nel periodo pre-pandemico.
Alla fine del terzo trimestre del 2021, il numero complessivo di occupati è ancora inferiore di quasi 350 mila unità rispetto allo stesso periodo del 2019. Peraltro, come ha anche sottolineato Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento, la crescita congiunturale dell’occupazione ha riguardato prevalentemente le posizioni a tempo determinato che sono cresciute del 20%, a fronte di una crescita del 3% dei contratti a tempo indeterminato.
Inoltre, il tipo di ripresa dell’occupazione ha connotazioni diseguali che hanno ulteriormente accentuato le differenze di condizione, in maniera macroscopica per quanto riguarda il genere e l’età.
Nel terzo trimestre 2021, i posti di lavoro in meno delle donne sono quasi 190 mila e quelli degli uomini 155 mila, rispetto allo stesso periodo del 2019. Se rapportato al numero totale di occupati per genere, la variazione percentuale dell’occupazione femminile è stata dell’1,9% mentre per gli uomini è stata dell’1,2%.
Sempre tra il 2019 e il 2021 è aumentata la differenza tra i tassi di disoccupazione: per gli uomini si è verificata una riduzione dal 9,1% all’8,8%, mentre per le donne si registra una crescita dal 10,1% al 10,4%. Nel complesso si consolida il differenziale di quasi 19 punti percentuali tra i tassi di occupazione femminile (del 49,9%) e maschile (del 68,5%).
Non migliora neanche la situazione dell’occupazione giovanile. Infatti il tasso di disoccupazione tra le persone in età compresa tra 15 e 24 anni è cresciuto nei due anni dal 25,7% al 26,9%.
Rispetto al 2019 la sola fascia di età che ha visto incrementarsi il numero di occupati è stata quella tra i 50 e 64 anni.
Secondo l’indagine Censis di fine 2021 sul futuro del lavoro in Italia, il 36,4% degli italiani mette in evidenza come la portata della crisi si sia risolta, innanzitutto, in una maggiore precarietà del lavoro; fra le donne, molto più avvezze degli uomini a confrontarsi con l’incertezza dell’occupazione, la percentuale sale al 42,3%, mentre fra gli uomini si colloca intorno al 30%.
Siamo quindi ancora lontani dall'intravedere un significativo cambio di direzione e non solo: oltre a tendere a diventare più precario, l’universo dei lavoratori dipendenti relativamente stabili tende a essere concentrato sempre più tra i maschi in età avanzata.
I lavoratori poveri
L’insieme di tutto quanto fin qui illustrato si combina con l’aumento sempre più costante del numero di lavoratori poveri che in Italia sta diventando un elemento strutturale del tessuto socioeconomico.
Nel nostro Paese, infatti, i lavoratori che dispongono di un livello di reddito che li colloca in prossimità o al di sopra del limite della povertà relativa rappresentano ormai l’11,8% della popolazione maggiorenne: l’Italia è ormai quarto paese in Europa per diffusione di questo fenomeno.
La situazione descritta nel grafico realizzato sulla base dei dati Eurostat del 2019 si è ulteriormente intensificata nel 2020. Secondo quanto emerge da uno studio(2) basato su modelli di micro simulazione statistica, a cura degli economisti Giovanni Gallo e Michele Raitano, l’aumento del numero di lavoratori nel 2020 è stimato nell’1,7% ma, in assenza di trasferimenti emergenziali e delle misure adottate a tutela dell’occupazione, la quota dei working poor italiani sarebbe cresciuta di oltre il 16%.
Disuguaglianze e disparità di reddito
In combinazione e in maniera parallela alla crescita delle condizioni di insicurezza economica del lavoro, anche il fenomeno della crescita delle diseguaglianze e della disparità di reddito sta diventando una caratteristica costante del nostro Paese.
Nel 2019, secondo i dati disponibili sulle dichiarazioni dei redditi, quasi il 60% degli italiani dispone di un reddito imponibile inferiore ai 20 mila euro l’anno, tra questi sono più di 11 milioni le persone che non superano la soglia dei 10.000.
D’altro canto, il 4% dei contribuenti che dichiarano un reddito annuo superiore ai 60.000 euro, assommano un reddito che complessivamente è di tre volte superiore a quello del 31% composto da coloro che dichiarano fino a 10 mila euro.
È poi piuttosto impressionante il dato relativo al reddito medio per singolo contribuente, che mostra l’estrema disparità tra i valori di chi dichiara più di 100 mila euro l’anno e tutte le altre categorie. In media, il reddito dichiarato da ogni singolo contribuente di quell’1% che si trova al vertice della piramide sociale è di dieci volte superiore ai 20 mila euro che costituiscono la media complessiva del Paese.
Le differenze di reddito disponibile tra le fasce più abbienti e il resto della popolazione, costituiscono il principale fattore determinante della crescita delle diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza degli italiani.
Nei 20 anni intercorsi tra l’inizio del nuovo millennio e il primo semestre del 2019, le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco dei nostri connazionali e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente.
La quota di ricchezza detenuta dal top 10% è cresciuta del 7,6% nel periodo 2000-2019, mentre la quota di “ricchezza” della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa (a eccezione di un lieve “recupero” nel periodo 2017-2019), riducendosi complessivamente negli ultimi 20 anni del 36,6%.
Insieme alle diseguaglianze cresce la diffusione della povertà
Come avevamo descritto nella scorsa edizione del rapporto, focalizzata sugli effetti della pandemia, nel 2020 il numero di persone in condizione di povertà assoluta è tornato a crescere dopo la lieve riduzione che si era realizzata nel 2019, in virtù dell’introduzione di misure di contrasto alla povertà e dei primi effetti dei trasferimenti erogati attraverso il reddito di Cittadinanza.
Nel corso del 2020 sono peggiorate significativamente le condizioni di quella fascia di persone che nel nostro paese galleggiava ai limiti della povertà: lavoratori autonomi a basso reddito, intermittenti, persone che lavorano nell’economia informale, e tutti coloro che non possono contare su solide reti sociali e familiari.
Più di un milione di persone tra il 2019 e il 2020 è passato da una condizione di precarietà che consentiva loro a malapena di galleggiare tra sopravvivenze e disagio, a una di povertà conclamata.
La situazione del 2021, secondo le stime preliminari elaborate da Istat, non sembra essere mutata, e ciò significa che le persone che si trovano in condizioni di marginalità non sono riuscite neanche a beneficiare della ripresa economica che si è realizzata dopo la fine del periodo più critico della pandemia.
Secondo quanto emerge dai rapporti annuali della Caritas, già segnalati lo scorso anno, è cresciuto e si è articolato notevolmente il profilo delle persone che si trovano in condizioni di bisogno e che si rivolgono agli enti benefici per cercare di accedere a beni di prima necessità.
Si tratta di famiglie composte da membri di giovane età e che lavorano, in cui sono presenti figli minori e che dispongono di un reddito anche se non sufficiente a far fronte ai bisogni del nucleo. Dalle analisi dei dati dei centri di ascolto della Caritas emergono due le tendenze ormai di medio periodo: “aumento consistente di persone che non si erano mai rivolte alle Caritas prima e crescita dei beneficiari di lungo corso, che sono in carico da 5 anni e più. Si profila una sorta di dinamica ‘a tenaglia’ che stringe chi è già dentro e che ha degli effetti pericolosissimi perché si sta al contempo accrescendo la fetta di coloro che precipitano in povertà”
Come si vede dal grafico basato sui dati Istat relativi alla povertà in Italia, la pandemia ha determinato un aumento dell’incidenza della povertà assoluta di quasi due punti percentuali (corrispondente a più di un milione di persone), ma secondo quanto emerge dallo studio già sopra citato di Gallo e Raitano, in assenza di trasferimenti emergenziali che a vario titolo hanno coinvolto oltre 14 milioni di persone nel 2020, l’aumento sarebbe stato di oltre 4 volte superiore.
Il reddito di cittadinanza e le forme di sostegno al reddito
Come avevamo già considerato nel rapporto dello scorso anno, l’introduzione del REI da parte del Governo Gentiloni a fine 2017 e poi successivamente del Reddito di Cittadinanza promosso dal primo governo Conte nel 2019, avevano contribuito a contenere la diffusione dei fenomeni di povertà assoluta e relativa.
Pur se molto distanti dall’essere misure risolutive e dal rappresentare un passo decisivo verso “l’abolizione della povertà”, come era stato annunciato propagandisticamente e trionfalisticamente dai balconi di Palazzo Chigi dall’allora Ministro del Lavoro e delle attività Produttive a proposito del RdC, queste iniziative legislative sono state accolte con un certo interesse dalle principali organizzazioni non governative impegnate nel contrasto al disagio sociale nel nostro Paese.
Da parte nostra, nelle considerazioni di inizio legislatura che abbiamo stilato nel 2018, avevamo riconosciuto positivamente l’introduzione del REI e auspicavamo anche un impegno di Governo e Parlamento per l’approvazione di una legge sul Reddito di Cittadinanza che potesse garantire autonomia e sostegno economico, soprattutto per le persone che vivono in condizioni di precarietà. Allo stesso tempo considerammo la proposta del Movimento Cinque Stelle, poi di fatto approvata nel 2019, non rispondente al requisito dell’universalità che secondo noi dovrebbe rappresentare la caratteristica principale di questo strumento economico.
Il primo Governo Conte, e la sua maggioranza composta da Lega e Cinque Stelle, all’approvazione della legge istitutiva del Reddito di Cittadinanza nel 2019, la presentò come misura fondamentale di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale.
A distanza di tre anni dalla sua approvazione e attuazione, si può affermare con un buon grado di certezza che si è trattato di una misura che poco o nulla ha inciso nell’accrescere le opportunità di accesso al lavoro stabile e dignitoso per le fasce giovanili e più deboli della popolazione, né tantomeno sulla riduzione delle diseguaglianze.
D’altro canto ha, invece, costituito uno strumento e una barriera alla diffusione della povertà nel nostro Paese che va migliorato ma non abolito, come è reso evidente anche dai dati del monitoraggio che realizza periodicamente INPS.
Infatti in questi due anni di grave crisi socio-sanitaria il Reddito di Cittadinanza ha rappresentato un sostegno concreto e vitale per oltre quattro milioni di persone, alle quali vanno aggiunte nel 2021 oltre un milione e duecentomila beneficiari del Reddito di Emergenza.
Per quanto riguarda i miglioramenti da apportare in una riforma di questo strumento, riteniamo significative e particolarmente importanti le rilevazioni e le proposte formulate dalla Caritas sulla base di uno studio recentemente presentato e realizzato da un gruppo di studiosi di cinque Università, di centri di ricerca e dell’Ocse, sotto la direzione scientifica di Cristiano Gori(3).
La Caritas italiana indica quattro linee guida per la riforma di tale misura che potrebbero risultare particolarmente adeguate ed efficaci:
- ampliare i criteri di accesso per gli stranieri (diminuendo gli anni di residenza richiesti),
- innalzare le soglie del patrimonio mobiliare in generale e quelle economiche del Nord,
- adottare una scala di equivalenza non discriminatoria per le famiglie numerose e contestualmente restringere i criteri di accesso per le famiglie monocomponenti e per le coppie, considerati troppo “generosi”.
Sul fronte dell’inclusione inclusione sociale e lavorativa, si auspica il coordinamento tra i soggetti della rete, l’aumento delle assunzioni di assistenti sociali e il ri-orientamento dei percorsi per il lavoro, permettendo il cumulo tra Rdc e reddito da lavoro come “in-work benefit".
Infine, si sottolinea la necessità di affrontare il nodo della condizionalità, formalmente assai severa e in realtà scarsamente applicata.
Intanto chi può (o non ne può più) se ne va dal lavoro
Se, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, il lavoro non garantisce più di per sé l’accesso a un reddito adeguato per condurre un’esistenza dignitosa, un altro fenomeno che si sta presentando diffusamente ci porta a ipotizzare che per molte persone sia diventato una gabbia da cui liberarsi.
Un’inchiesta di Ypulse sottolinea che nell’Europa Occidentale, ben il 20% dei Millennials ha lasciato il proprio posto di lavoro nell’ultimo anno. E come negli Stati Uniti, anche nel Vecchio Continente le cause principali riguardano la ricerca di migliori opportunità e paghe più alte, ma anche una maggiore attenzione alla tutela della propria salute mentale e a un “work-life balance” più sostenibile.
In Italia, il fenomeno della crescita significativa delle dimissioni volontarie è testimoniato dai dati presentati in Fig. 6.
Nel primo semestre del 2021 le persone che volontariamente si sono dimesse dal proprio posto di lavoro sono state più di un milione: il 20% in più rispetto allo stesso periodo del 2019.
Le fasce d’età maggiormente coinvolte riguardano i 26-35enni seguita dalla fascia 36-45 anni. Si tratta, in particolare, di una tendenza giovanile collocata soprattutto nelle mansioni impiegatizie.
Nelle analisi e nelle valutazioni di questo fenomeno, le interpretazioni più diffuse si collocano sostanzialmente lungo una polarizzazione tra chi lo ritiene determinato dalla combinazione di una maggiore vivacità del mercato del lavoro cui si combina un consolidamento di una cultura più flessibile e imprenditoriale, dall’altro invece si tende a sottolineare l’aspetto di critica radicale all’intera organizzazione e cultura del lavoro finora preminente.
Secondo quanto scrive Francesca Coin(4), “di fatto, le Grandi Dimissioni sono il sintomo di una grande ‘resa dei conti’ da parte dei lavoratori, in cui ciascuno soppesa i costi e i benefici del proprio lavoro. L’esito di questa resa dei conti non è univoco: non è detto che tutti coloro che lavorano in condizioni insostenibili possano andarsene né che l’assenza di scioperi o dimissioni rifletta un mondo del lavoro pacificato. Di fatto, in assenza di tutele e cuscinetti sociali come un’indennità di disoccupazione (spesso non accessibile a chi si dimette volontariamente), un reddito di base incondizionato o anche di un tasso di disoccupazione contenuto, dire di no non è sempre possibile, anche quando sarebbe necessario. Questo non significa, dunque, che ci si possa dimettere in massa ogni volta che le cose vanno male, né che vadano bene quando questo non accade. Significa, purtroppo, che le sofferenze quotidiane che vengono liberamente condivise solo quando le persone decidono di andarsene vivono, spesso, nel silenzio. In questo senso, parlare di grandi dimissioni significa anche interrogarsi sulle condizioni che consentono, o meno, di sottrarsi a un lavoro vessatorio e di intercettare il malessere del lavoro prima ancora che questo prenda un’espressione politica.”
Anche Luigi Manconi in un suo articolo pubblicato su Repubblica(5) il 1 dicembre 2021, ha affrontato il tema focalizzando l’attenzione sui fattori motivazionali e sui cambiamenti di carattere esistenziale che sarebbero stati innescati dal periodo pandemico e che , in estrema sintesi ci portano a domandarci “ ne vale la pena? Tanto più se quel lavoro, del cui senso si dubita, ci appare improvvisamente in tutta la sua povertà e pericolosità (leggete le storie degli omicidi bianchi pubblicate da Repubblica): ripetitivo, spesso nocivo e sottoposto a ritmi intollerabili, pagato male e, in definitiva, causa di alienazione. Proprio nell’accezione originaria - marxiana! - del termine. Ovvero, quel processo che fa del lavoratore un’appendice di ciò che egli stesso produce”.
Tale riflessione, infine, trova anche una sua evidenza empirica nelle risposte a una domanda sul senso del lavoro rivolta a un campione rappresentativo di cittadini italiani dal Censis a fine 2021.
Per circa due terzi degli intervistati “il lavoro non è più centrale nella vita delle persone, ma è solo un mezzo per garantirsi un reddito.”
Conseguentemente se per molti il reddito che dal lavoro deriva risulta insufficiente a garantirsi un’esistenza dignitosa, è da considerarsi non priva di razionalità la scelta di chi decide di sottrarvisi.
Note
(1) - I dati si riferiscono al secondo trimestre del 2020; cfr. Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail, Anpal, 2021, Il mercato del lavoro 2020. Una lettura integrata, pag.38; https://www.istat.it/it/files/2021/02/Il-Mercato-del-lavoro-2020-1.pdf
(2) - http://www.ecineq.org/2020/12/21/sos-incomes/
(3) - https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/reddito-di-cittadinanza-rapporto-caritas-come-migliorare.
(4) - https://www.valigiablu.it/grandi-dimissioni-lavoro/
(5) - https://www.repubblica.it/commenti/2021/12/01/news/manconi-328551690/
Abd Elsalam Ahmed Eldanf
“Abd Elsalam Ahmed Eldanf il posto fisso e sicuro lo aveva, ha fatto una scelta di classe e di fratellanza: ha deciso di battersi per i suoi compagni ed è stato assassinato”. Parole pesanti hanno fatto da eco alla morte di Abd Elsalam, sin dai giorni successivi a quello che da un lato è stato prontamente definito “tragico incidente”, e dall’altro “omicidio padronale”. E lo stesso Abd Elsalam, con il suo attivismo, faceva a sua volta da eco ad altre parole ed altre lotte; viene in mente, a leggerne la vicenda, quel “nessuno è libero se tutti non sono liberi”.
Non era un precario, Abd Elsalam, ma molti dei suoi compagni lo erano. E quando l’azienda per la quale erano impiegati nel settore della logistica venne meno agli accordi sul posto fisso e su quel precariato, lui insieme a tanti altri non esitarono a protestare e scioperare. “Parti! Vai!”, anche poche parole possono avere effetti devastanti; quelle furono le parole sentite dai compagni di Abd Elsalam, rivolte a uno dei trasportatori dell’azienda, quella brutta notte del 14 settembre 2016.
Quel presidio c’era chi voleva forzarlo e disperderlo, quello stesso presidio la cui presenza fu addirittura negata dagli inquirenti, forse per far venir meno l’intera tesi dell’incitamento a partire nei confronti del tir. La verità, l’unica verità che fu subito irrimediabilmente evidente a tutti, è la morte di Abd Elsalam, investito da quel tir.
Da lavoratore migrante si era impiegato nel campo della logistica, uno dei più problematici dal punto di vista della tutela dei diritti e delle condizioni di lavoro, ma (e forse anche perché) tra i comparti cruciali per l’economia del mercato. E lui, col suo posto fisso già assicurato, non sopportava di vedere i suoi compagni ancora precari e ai limiti dello sfruttamento. Azioni importanti, sulle barricate dei diritti, megafono in mano, rabbia e speranza nel cuore, resistono anche davanti alla morte, e trovano eco nelle parole, come quelle di questa canzone:
“Va bene anche allearsi con la morte
se serve a garantirsi il frigo pieno.
Va bene fare scorte, calpestare un po’ più forte,
far passar sopra il corpo un autotreno.
Se c’è chi vuol spezzare la catena,
conflitto tra lavoro e capitale,
fra un Tir lanciato ed una pancia piena
finirà di certo molto molto molto molto male.
Così che nella notte di Piacenza
un egiziano è stato calpestato
per lui non c’è più ombra di clemenza,
quel picchetto era una sfida al nostro vivere beato.
Beata la coscienza della notte,
beato il nostro vivere civile,
beato il nostro frigo che s’inghiotte
questo residuale senso dell’umanità servile.
Abd el-Salam perdona noi
per tutte le magnifiche buone intenzioni
di cui è asfaltata questa via,
per quest’inferno di crumiri ed esclusioni
Abd Elsalam perdona noi,
qui da Piacenza che si muovono le merci,
di cui si asfalta pure te
che ti sei osato di frapporre fra i commerci”
La canzone è “Abd El Salam” di Alessio Lega